L'angolo di Bertrando

Siamo solo bugie che attendono di essere svelate.

venerdì, dicembre 30, 2005

Ti spiego perchè

Ho chiesto un anno più brutto per un semplice motivo: quello che mi lascio alle spalle è l’anno più bello della mia vita.

giovedì, dicembre 29, 2005

Il colloquio

Stamattina sono stato a colloquio col Duemilasei. Gli ho chiesto di darmi qualche suggerimento e qualche anticipazione su quella che sarà la mia sorte, ma non ha voluto rispondermi. Comprensibilmente imbarazzato per la mia smisurata curiosità, l’ho pregato di essere magnanimo, comprensivo con me e, nel caso in cui non potesse esaudire il mio desiderio di essere uno migliore del signor Duemilacinque, mi portasse un anno peggiore. Mi è sembrato un tipo abbastanza tranquillo, rilassato, anche se da quei freddi occhi di ghiaccio non sono riuscito a leggere molto. E poi è di poche parole. Ti richiamerò io, mi ha detto.

mercoledì, dicembre 28, 2005

Pensieri del ventotto

…oggi ho guardato distrattamente la neve e mi sono accorto che non cade come la pioggia. Bella scoperta, eh? La neve non scende dritta, ma ruota su se stessa, forma riccioli più o meno ampi che danno la sensazione di un turbine che si posa a terra. Come un Twister, ma fatto di particelle bianche. E’ poi incredibile vedere come alcuni fiocchi tentino di risalire verso l’alto e vincere la forza di gravità che li compatterà poi a terra, e li farà diventare solo un elemento del tutto, privandoli della loro individualità. Provano, provano, provano, ma ricadono sempre, trascinati dagli altri fiocchi…

…un libro di teatro sta cercando di convincermi che i veri emo-boy sono i napoletani. Sì, perché sotto l’apparenza allegra e spensierata, da guitti, celano un profondo disagio interiore, dato dal contrasto tra quella che è la vita e quella che vorrebbero che fosse. So long, Vesuvio…

…mentre studiavo ho provato a pensare a cosa sarò un giorno. E sono arrivato alla conclusione: non lo so. Non so nemmeno cosa voglio diventare, cosa voglio essere. Non sono preoccupato. O meglio, sono preoccupato perché non sono preoccupato. Comunque ci ho pensato solo per pochi secondi, meglio così…

…mi sta venendo un raffreddore royale, e tra due giorni è Capodanno. Ottimo…

…i giornalisti sportivi di calcio ormai mi fanno schifo. Stanno rovinando un patrimonio del calcio italiano come Luca Toni. Tra qualche mese abbiamo il Mondiale e loro che fanno? Semplicemente si inventano che il Barcellona lo sta cercando. Lo destabilizzano psicologicamente e soprattutto lo rendono inviso ai propri tifosi (si sa come sono i fiorentini…) E ciò non può che portare a prestazioni sotto la media. Vuoi dire che ci troveremo Vieri titolare in Germania? Spero di no. Spero nelle buone capacità di Toni nell’estraniarsi da tutto, anche se è da poco che è sulla cresta dell’onda. Dovrebbe chiamare Cassano e chiedergli come si fa. Fratelli d’Italia…

…il cinema oggi compie 110 anni. E non è ancora andato in pensione…

…mi è arrivata una raccomandata che mi comunica che ho perso tutti i punti sul patentino di sciatore. L’ho stracciata…

…oggi pomeriggio vado a comprare le catene per il cane…

martedì, dicembre 27, 2005

Impasse

Da qualche giorno sono incagliato come il Titanic nella ghiacciata stesura di un testo. L’idea è nata improvvisamente, sulla base di un’emozione provata durante una discussione. L’ho incubata per qualche ora, al calduccio e al riparo dalla banalità, nel mio intimo. Quando mi sono ritenuto pronto, si è materializzata inizialmente sottoforma di poche frasi, pochi e semplici concetti che ne costituivano l’ossatura, per poi diventare un testo quasi completo. Sì, quasi, perché non so più come andare avanti. E’ raro, per uno che si trova a suo agio nello scrivere incipit e conclusioni, ma che trova enormi difficoltà nel gestire il tessuto molle dell’argomentazione. Eppure mi è capitato, e non so perché. Non riesco più a tradurre in parole quelle che sono le emozioni. Provo qualcosa e cerco di farlo capire, ma mi rendo conto di non trovare le parole adatte, perché quelle parole non ci sono. O sono troppo, o sono troppo poco, per questo pensiero. Ciò che mi sgomenta è la semplicità del tutto: niente metafisica, niente sofismo. E’ come se i giorni passati chino sui libri avessero inibito la mia capacità di raccontare, per ipertrofizzarne la componente analitica. Ma non era lo studio che apriva le porte al pensiero? O è forse il contrario?
Non mi dispero, e conto di finire presto questo testo che, ironia della sorte, tu non leggerai mai. Perché non lo capiresti. O meglio, le mie limitate capacità narrative non ti consentirebbero di fartelo capire. Questo “Impasse” è uno sfogo. Per cercare di capire come ti senti tu quando non riesci a dire quello che vuoi.
Nevica.

lunedì, dicembre 26, 2005

Resoconto natalizio

Un maglione, l’ultimo libro di Sandro Veronesi, un auricolare bluetooth – che non funziona col mio cellulare – e qualche busta riempita da pecunia. Sotto il pino, poco autunno e molto Natale. E sono soddisfatto. Nessuna ciabatta, pigiama, kit per radersi o lavarsi insieme ai marinai della Compagnia delle Indie. Nessun regalo scontato o indesiderato. Cosa volere di più?!
Natale border-line, direbbe un caro amico; nel prologo, nei suoi atti e nel coro. Perché quest’anno sono proprio stato un oggetto estraneo. Sì, insomma, c’ero; lì, insieme a tutti i miei parenti, a mangiare, bere, ridere, scherzare, raccontare boiate senza senso – deve essere il vino… - parlare di argomenti seri che finiscono sempre poi nel classico “eh, ma siamo italiani”. Ma ero sopraffatto dalla stanchezza, dal sonno, dalla noia, da pensieri e ricordi piacevoli e terribili, dalla lettura, dalla musica, da tante cose che a Natale dovrebbero essere accantonate per un po’, per gustarsi l’atmosfera pacifica – ipocrita?! – e la rilassatezza di qualche giornata in famiglia. E’ stato così, ma fortunatamente non ha pesato a nessuno.
La notte di Natale volevo andare alla Messa di mezzanotte. E’ un momento che adoro particolarmente perché oltre ad essere coinvolgente – quando partono i cori mi gonfio d’ottimismo – è estremamente divertente. Ti è mai capitato di vedere qualche distinto/a signore/a che si addormenta? E qualcuno che sviene? E di mettere alla prova i tuoi nervi e i tuoi buoni propositi davanti al Signore, quando un bambino di pochi mesi – o a volte anni! – piange? Oppure quando continua a far cascare dalle mani un giocattolo, che poi finisce sempre tra i tuoi piedi e glielo devi riporgere? O ti è mai capitato di stringere la mano – il segno della pace! – e chiederti a chi veramente la stai dando, se la merita, la tua pace? Beh, comunque mi sono perso questi momenti. Alle ventidue e trenta del ventiquattro dicembre il mio corpo collassò sul letto e non si riprese più fino al mattino dopo. Niente Messa, niente messaggi immediati alle persone importanti: aspetteranno! A dire la verità qualcuno non ha dovuto aspettare, perché qualcosa mi ha svegliato a mezzanotte e zerodue e mi ha consentito di arrivare puntuale come il Cristo. Dopo, il buio.
Forse sono l’unico ragazzo di ventitre anni che è sveglio la mattina di Natale alle otto e dieci; e per volontà sua! Così ho la giustificazione per addormentarmi, senza parente ferire, subito dopo il pranzone.
Pranzone al quale ho mangiato più del solito, ovviamente perché ho tenuto per più tempo la bocca chiusa. E ho bevuto meno. Anche una bottiglia di Moet spuntata nonsodadovenonsoperchè mi è sembrata meno tonica e unica del solito. Se ci pensi, è per il novanta per cento acqua pure quella. In compenso ho trangugiato due bottiglie di Norda frizzante – ha le bollicine più forti che ci sono sul mercato, e sono incazzate nere con la bollicina di acqua Lete perché svilisce il loro status sociale di procuratrici indefesse di borbottii intestinali – da solo. E ora ne sto pagando le conseguenze! Forse non io…ops!
Quest’anno mi sembra di aver azzeccato i regali. Miracolo! Ne ho fatti solo due, forse è per quello. Fatti col cuore, si dice. E meno male che c’è, il cuore.Ora sono tranquillo davanti al mio foglio bianco, a pensare a chi sta facendo cosa e perché. E scrivo. A sessantasei brevi messaggi di testo spediti, ho ricevuto poco più della metà delle risposte. Forse è proprio vero che la gente pensa meno a noi di quanto crediamo. Bzzz Bzzzzz Beee Beeep: SMS. “Buon Natale anche a te! Scusami il rit ma è stata una giornata piena e non so più chi mi ha fatto gli aug!”. Qualcuno che si è divertito più di me. Bzzz Bzzzz Beee Beeep: “auguri anche a te! Anche se non so chi sei, non ho il tuo num in rubrica…”. Qualcuno che si è dimenticato di me. Bzzz Bzzzz Beee Beeep: “A te”. Qualcuno che ha meno tempo di me. Bzzz Bzzzz Beee Beeep: “Auguri”. Qualcuno sta sicuramente peggio di me.

domenica, dicembre 25, 2005

E' natale?

E’ low-profile quest’anno. Non hai anche tu la sensazione che il Natale, le Feste, siano in generale poco “spinte?” Sarà che alla tv non hanno ancora dato Jack Frost o Balto, sarà che di pecunia per comprare i regali quest’anno non ve n’è, sarà che Babbo Natale ha un vestito rosso da comunista e quindi non lo sopporto; ma davvero questi giorni mi sembrano come tutti gli altri. Piatti o montuosi, ma come tutti gli altri.
“E’ così che deve essere”, mi dici tu, agnostico uomo d’occidente. Sì, ma…la magia dov’è? Dov’è quel brividino, quella sensazione positiva che avevo nel percorrere le vie del centro nei giorni di Natale? E quell’attesa dei doni che fino all’anno scorso comunque mi pizzicava le corde? Non penso possa essere colpa dell’ennesimo paio di pantofole, camicie, o beauty case Rockford che mi regaleranno; fa sempre comunque piacere sapere che qualcuno sta pensando a te. O forse perché, come dice il retro di copertina di un bel libro, le persone pensano molto meno a noi di quanto noi pensiamo?
“Stai vivendo una crisi di fede, non cerchi Dio, per quello non vivi il Natale…pensi ai doni, non al tuo dono più grande”, mi dici tu, amico devoto. Sì, forse hai ragione. Quest’anno, primo dopo tanti, non ho ancora cominciato la solita riflessione sull’esistenza di Dio, sulla sua volontà e su quello che sta facendo per me e per il mondo. Riconosco un mio limite, perché ogni volta mi rendo conto di ragionare in termini utilitaristici. Chi fa qualcosa per qualcun/qualcos’altro. Quest’anno andrò in Chiesa, parteciperò alla Messa, ma senza quell’entusiasmo – già, che tu ci creda o no, a me è sempre piaciuto andare in Chiesa, soprattutto nelle occasioni particolari – che mi ha sempre caratterizzato. Prevarrà il freddo, la stanchezza per un viaggio di trecento chilometri. Eppure non è cambiato nulla rispetto all’anno scorso. Forse sono cambiato io. E non me ne sono accorto.
Dicono che in Italia ci sia la crisi. Ed è vero. Però i negozi sono pieni. Ma è evidente che lo sono meno. Basta guardare le decorazioni per le strade, e le stesse decorazioni dei negozi. Poche, scontate, tristi. L’unica che va ancora di moda è il Babbo Natale appeso fuori dal balcone che mima un’impresa alla Manolo. E solo per questo mi sta sulle balle.
Mi mancano i tre Re-Magi della Sperlari. Quanto li spingevano l’anno scorso. E il pandoro Melegatti? Il Tartufòn? No, non ci sono queest’anno. C’è solo l’austera – sembra un rimprovero – pubblicità della Paluani. E Valeria Marini. La devi videochiamare, hai capito?! Sembra di essere in estate…feel the love generation…Christian De Sica è ancora in tenuta estiva e cerca di broccolare Adriana. Io invece son qui davanti al computer che prego di non dover uscire per evitare di ghiacciarmi le palline. Ah, e quest’anno per passare il tempo chiamerò l’Ottonovedueottonovedue, il Dodicicinquantaquattro, il Dodiciottantotto, non c’è Capodanno senza il botto.
Fa tutto la televisione, anche il Natale. Purtroppo quest’anno anche lei si è dimenticata.

Buon Natale a te che stai condividendo con me pochi minuti della tua preziosa vita. Lo so che mi tireresti un pugno perché te li ho fatti perdere, leggendo queste stronzate. Mira bene, però!

sabato, dicembre 24, 2005

Vigilia

E’ la vigilia di Natale, ma sto scrivendo queste parole il giorno ventuno. Possibile che sia in grado di viaggiare nel futuro? Comunque non preoccuparti, è un giorno come tanti altri. Stai pure lì dove sei.

venerdì, dicembre 23, 2005

Descrizione

[…] solitario incompreso, lui, essere pusillanime pieno di incertezze e frustrazioni, irrimediabilmente represso ma dotato di un costante vaniloquio sovversivo che compensa la sua tragicomica assenza di potere […]

Ogni tanto ho la sensazione che i libri mi parlino.

giovedì, dicembre 22, 2005

Pensa per te!

A casa mia stanno rifacendo il bagno. Oggi quindi sono rimasto confinato in cucina a tentare di studiare un po’. Sto leggendo – con enorme fatica – quattro righe sugli esordi del cinema d’animazione della Scuola di Zagabria, quando ricevo un bel messaggio da un amico. Finalmente! Sorrido e cerco di rispondergli, contento perché almeno posso deconcentrarmi un po’. “Guarda come si studia! E’ così che si fa?”. Non so che dire, rimango basito. “Ah, i cellulari, ecco cosa rovina l’umanità”. Già, penso tra me…te sì che sei un filosofo!
Uno dei tre uomini che stavano cercando – sì, perché sembrava andassero a casaccio, come un bambino davanti all’ultimo modellino di Meccano – di montarmi il bagno, era in sala a trapanare qualcosa e mi ha visto armeggiare al cellulare. Ti ripeto, era TUTTO IL POMERIGGIO CHE ERO CHINO SUI LIBRI, cercando, tentando, pregando perché potessi diventare sordo e non sentire le loro discussioni, i loro rumori e, cazzo, i loro odori. Mi arriva UN messaggio, uno solo. Tento di rispondere, e questo scagnozzo mi viene a criticare?
E’ così che si studia? Sì, si studia così GRAZIE A TE! Perché hai messo in camera mia tutta la tua attrezzatura? Avrei potuto essere lì, bello tranquillo; non mi avresti nemmeno visto, se avessi lasciato fare a me. Invece no, hai voluto fare DI TESTA TUA, A CASA MIA. Abbi almeno il pudore di lasciarmi fare quello che voglio! Pochi minuti dopo gli suona il cellulare. E rido come un porcello. Deve essere l’amante, o comunque qualcuno che lo ha chiamato nel momento sbagliato. “Sì…eh…già…però…ma…”, si gratta l’orecchio, il mento, un sopracciglio. Per 10 minuti buoni. Gli passo di fianco – lui non ha ancora chiuso la comunicazione – prima di sbattere la porta dietro di me e portare il cane al parco. “I cellulari, ecco cosa rovina l’umanità!”. Io rido, lui no. Non sa come mettere giù. Tiè!

mercoledì, dicembre 21, 2005

Sogno

Stanotte ho incontrato Paolo Bonolis mentre ero a pesca. E’ nata un’amicizia e il Paolone nazionale mi ha invitato nel suo ufficio a Milano Tre. Entro nell’ufficio e lo vedo seduto alla sua scrivania mentre parla con tre persone che non conosco. Alla sua destra un’altra scrivania occupata nientepopòdimeno che da Rita Levi Montalcini, la quale sta passando il tempo pettinandosi davanti allo specchio. Davanti alla scrivania di Bonolis un tavolone molto lungo ma stretto, al centro del quale vi è seduta Susanna Agnelli, con quattro o cinque persone intorno che stanno ascoltandola. Appena Bonolis mi scorge manda via i suoi interlocutori, a cui mi presenta, e senza neanche darmi una sedia, mi dice: “cominci domani, alle nove devi essere a Cologno, studio 1”. “Sì, ma…a fare che?”. “Tu non preoccuparti, vieni e basta”.
Detto questo, prende il cappotto da un appendiabiti alle sue spalle, mi cinge il braccio e mi dice: “Seguimi”. Giro per Milano Tre in Mazda MX5; visita alla sua abitazione. Poi l’aperitivo. Mi porta in un posto pieno di luci al neon, tavoli tutti di cristallo. Mi presenta diverse persone; mi ricordo che erano calciatori e gente della tv ma non di preciso chi. In questo locale trovo anche un amico con cui comincio a parlare e gli racconto della fortuna che stavo avendo quando…”Ehi, omonimo”. Mi volto e vedo Bonolis che mi piazza in faccia le chiavi della Mazda facendole penzolare da un dito. “Non è che me la sposteresti, è in divieto di sosta…” Acconsento, ma in me lo maledico…”ci manca solo di diventare il portaborse di Bonolis! Ora prendo la macchina e…” Rimangio tutto quello che ho detto: scorgo che c’è qualcuno in macchina, una donna bionda. Quando mi vede arrivare, scende dall’auto, mi porge la mano e, con due baci sulla guancia più vicini alla bocca che allo zigomo, mi dice: “Tu devi essere Paolo…piacere, Elena!”. Il sogno si conclude in un super-attico di Roma (?!), vista colosseo. Sto fumando un sigaro cubano. Al mio fianco, una donna dorme. Indovina chi? Elena Santarelli.
I sogni son desideri, di felicità-tà-tà-tàtà!

martedì, dicembre 20, 2005

Un mondo grigio

Intercity Grosseto – Milano Centrale. Prima classe, carrozza 001, posto quarantacinque-finestrino. Sera. Condivido lo scompartimento con altre tre persone. Davanti a me due toscanissimi dipendenti di Trenitalia si stanno scambiando consigli riguardo ad un cruciverba su cui uno dei due è piantato da qualche minuto. Alla mia destra una signora dalla pelle abbronzata, sulla quarantina, dorme con le cuffie nelle orecchie, tenendo un volume talmente alto che riesco a sentire per tutto il viaggio – nonostante il gran rumore mentre il treno procede! – il cd live di Giorgia. Vorrei…illuminarti l’anima… “Buonasera”, dico sedendomi nel mio seggiolone. “E’ sicuro che sia il suo?”, dice uno dei due di Trenitalia. “Boh, qui c’è scritto quarantacinque-trattino-finestrino”. “Allora è questo”, si alza e cambia posto lasciandomi il mio. Che brutta sensazione il sedile caldo, ti sembra di avere addosso qualcosa non di tuo. “Grazie mille!”. Non parlerò più per le quattro ore successive.
Il lettore mp3 è scarico, uso il cellulare ma ho su solo quattro pezzi – messi in loop per quattro ore! “Vabè, ho due libri dietro”. Comincio con un libro di poesie, lo leggo tutto d’un fiato, tanto che in un’ora e mezza è finito. No, il treno non è un posto ideale per leggere poesie. Non riesco a concentrarmi, ad entrare nel “clima” del testo. Chissà perché. Eppure c’è un silenzio apprezzabile. Il treno non è poi così rumoroso. Poso il libro, e provo a chiudere gli occhi. Una, due, tre volte. Niente da fare, solo i miei vicini ci riescono. Ma come fanno? E soprattutto, cosa c’è che non va?
Decido di seguire l’istinto, e lascio quindi andare gli occhi in giro per lo scompartimento. E finalmente capisco.
E’ tutto grigio. Le pareti, le mensole, gli stipiti di porte e finestre. I sedili sono scuri, con piccoli pois più chiari, ma sempre grigi. I poggia-braccia, le maniglie, il pavimento. Grigio, grigio, grigio. Anche il vetro che funge da separeè col corridoio, che è verde acqua, assume colore grigiastro a causa di quello che ha intorno. Siamo noi viaggiatori che rompiamo l’ordine, che disturbiamo l’equilibrio. Insieme alle luci fuori dal finestrino.
Il grigio è un colore triste, si dice. Ma non mi sento triste, né oppresso; anche se avrei tutte le ragioni per esserlo. Il grigio è il colore della riflessione. Sì, dell’introspezione. Dell’egoistica masturbazione mentale. La mia mente comincia a viaggiare indietro e in avanti, si interroga, si stupisce, si sgrida da sola. Sono con altre persone, ma è come se fossi solo. Incredibile. Non c’è silenzio, perché il treno emette un rumore di sottofondo continuo e con poche varianti, ma è come se ci fosse. Il rumore non mi disturba.
Ripenso a tutte le stereotipiche situazioni in cui viene ritratto l’uomo sul treno. Solo, in fuga da qualcosa, guarda fuori dal finestrino e vede il paesaggio che cambia. E quel vetro che lo separa dal mondo esterno è un piccolo schermo cinematografico – uno specchio? – in cui vedere se stesso alla ricerca di un cambiamento. Spesso scende una lacrima, la malinconia l’assale. C’è un fondo di verità, in questo. A differenza dell’auto, dove l’impegno alla guida non consente una totale estraniazione dal mondo esterno, sul treno non hai responsabilità, ti fai trasportare. E a differenza dell’aereo, il treno non occulta il tuo percorso, ma ti consente di vedere dove stai andando e la vita che stai attraversando. Non puoi non scendere cambiato, da un viaggio in treno. O se non altro più lucido. Puoi leggere, scrivere, ascoltare musica, ma finisci sempre in te stesso.
Allo stesso modo il treno è un luogo sociale. Tutto quel grigio è colorato da NOI che vi siamo dentro, che lo animiamo. Non puoi non notare l’altro, non puoi non esserne incuriosito. Perché l’ambiente ti manda un messaggio, ti dice: “c’è un’altra particella colorata oltre a te, dagli un’occhiata!”. Non gli parlerai mai – come ho fatto io! – ma hai posto attenzione a chi hai davanti. Lo hai scansionato e ti sei chiesto cosa ti differenzia da lui. Non sei più uno fra tanti, ma uno fra questi. E ti senti un pochino più tranquillo. Meno solo.
E’ buio, le luci al di fuori sono solo piccoli lampi impazziti ed indefiniti. Cerco di capire dove mi sto facendo portare, cosa c’è la fuori, ma è tutto così schizofrenico da togliermi le forze. Due sole luci sono fisse, sono molto fioche ma illuminano ancora. Sono riflessi sul vetro. Due. Capisco che sono mie. Che sono ancora vivo.

sabato, dicembre 17, 2005

Maria

Mi hai accompagnato per tutta la notte,
i tuoi occhietti vispi che cercavano i miei;
i miei che li fuggivano per tenerti più vicina.
L'università era il nostro castello,
mano nella mano o accoccolati
l'uno all'altra. Anche distanti, sempre insieme.
Quando ti arrabbiavi - come adoravo quel momento!
il tuo musino si vestiva di scuro;
ma non vedevi l'ora di perdonarmi, nell'attimo più bello.
Sei zucchero, Maria.

Mi hai baciato a tradimento,
in una scura lezione di cinema.
Confuso, ma ero Dio,
perchè le tue labbra mi hanno fatto sentire il tuo unico Amore.
Poi sorridevi nei tuoi occhi nocciola,
e fuggivi perchè io ti seguissi.
Ti alzavi sulle punte dei piedi,
per abbracciarmi.
Sei piccolina, Maria.

Io non so se abiti questa Terra,
non so neppure se esisti.
Ma se ti giungerà questo sogno in bottiglia,
prendi ancora la mia mano.
Non desidero altro.
Non desideri altro.

giovedì, dicembre 15, 2005

La comparsa

“Io vado @ Iulm, devo trovarmi con la Francesca per darle una cosa per il prof, vieni anche te?”. “No, devo studiare, Silhouette m’aspetta…”. Via Dante. Quattro passi. “Ma ci metterai molto?”. “No, cinque minuti”. “Ma sì, dai, vengo anch’io, almeno saluto la Francesca e le faccio gli auguri…”. Metropolitana, linea verde. Romolo. Iulm.
Dico la verità. L’avevo lasciata in decadenza, me l’aspettavo in rinascita, ma ora è peggio di prima. Tanto per cominciare, al rotondino che connette Via Carlo Bo con un’altra strada di cui non ricordo il nome, vedi un’ X5 messo in bella mostra proprio sulla rotonda. Sembra una pubblicità. Prosegui per cinque metri, e ti vedi un omino con una cinepresa che filma un vecchiaccio su un motorino. I ponti della comunicazione!
Entro nell’Istituto, nell’edificio dove ci sono gli uffici. C’è ancora lo stesso odore…mi ricordo dei pomeriggi spesi a colloquio per la tesi. Nessuna lacrima. Tre scale e siamo nell’ufficio dove lavora Francesca. Mentre Fabio espleta il suo compito e scambia quattro chiacchiere, io mi guardo intorno, incuriosito come al solito dalla situazione che mi circonda. Già, il grande malato IULM. Fuori bello, dentro in decadenza. Evidentemente stanno cambiando qualcosa, ci sono scatoloni pieni di videocassette, audiocassette, nastri, per tutto il corridoio. Una gran bella sensazione di disordine! Ma l’importante è l’abito, no? Ed ecco che fuori c’è un bel piazzale pulito, panchine e figure geometriche disegnate sull’asfalto.
Vabè, comunque…scambio anch’io due parole con la Fra, poi dobbiamo andare. Salutiamo, e via, giù dalle scale. Oggi non è una gran giornata, ho passato la mattinata in segreteria per consegnare un – rivelatosi poi – inutile modulo. Burocrazia…
Siamo ora nel piazzaletto antistante l’Istituto e stiam parlando di un concerto. “No, non può essere…”. “Che cosa, Paolo?”. “Ma è…”. “Chi, Paolo?”. Accelero il passo, Fabio fa fatica a starmi dietro. Sono in trance. “Non può essere lei!”. “Chiiiiiiii?!!”. Attraverso la strada senza nemmeno guardarmi a lato, ho il focus puntato sul piazzale dell’Ateneo. “Samantha…è lei!”. Mi avvicino, l’avrò sì e no a 30 metri ora…è proprio lei! Vampata di caldo. Fabio non so più dov’è; e se mi sta chiamando non lo sento. Impallinato completamente, accelero il passo. “Ma dove va?”. Vedo che è insieme ad un ragazzo ed una ragazza e sta dirigendosi verso la strada. Quasi sto correndo, ora. Le arrivo alle spalle: “Samy! Samy!”. Si gira, mi guarda – ma quanto è bella? – attonita. Passeranno cinque secondi, quasi sembra che non mi riconosca! “Paolo?!”. Sento il sangue circolare velocemente nelle vene, un’ulteriore vampata di caldo mi fa immediatamente togliere i guanti. Sono balbuziente, ormai: “S-Sì”. Da film, scena da film. Quasi non sappiamo cosa dirci. IO non so cosa dire, a vedermi da fuori sembro il classico gioppino da American Pie che ci prova con la bella della scuola mentre viene preso a pernacchioni dai machi della squadra di football. “Come va?”, le prime parole che mi escono di bocca. Ti credo, non sto capendo più niente, la sto guardando dritto negli occhi – marò! – e sono già partito per un viaggio senza ritorno. “Come nei film, una scena da film”, penso sorridendo.
Sì, PROPRIO COME NEI FILM. “P-Paolo, scusami, ma stiamo girando…”. Improvvisamente riprendo lucidità. Mi guardo a destra, e vedo Fabio poco lontano che è piegato in due dal ridere. Mi volto dietro: c’è una troupe televisiva! Mi sono infilato sul set di una pubblicità senza nemmeno accorgermene! Ora sì, sono davvero in confusione…che figura! Sudo.
Samantha cerca di salvarmi. “Ci vediamo dopo, appena ho finito…sei di fretta?”. “Di frettissima!”. Non era vero, ma DOVEVO tirarmi fuori subito da quella situazione imbarazzante. Poi ci ripenso. “Quanto ci metti?”. “Due minuti”. “Ok, allora ti aspetto qui, ciaociao”. Mi defilo velocemente, zampettando come un fauno verso il bosco. Fabio continua a ridere, e dopotutto rido come un matto pure io. E’ appoggiato ad una colonna con il volto tra le mani. “Ma non è possibile…infilarsi in un set tv…e poi...Paolo?!?!”. E ridiamo a manetta. Però sotto sotto penso alla sonora figura di sterco che ho fatto. Già ai tempi non è che fosse finita bene, ora ho completato l’opera! “Questa va nei tagli di Striscia”, continua a ridere l’amico Fabione, che dopo poco mi abbandona per accompagnare un altro ragazzo ri-incontrato dopo molto tempo a mangiare un panino. Io rimango lì, mi appoggio la colonna e cerco di riprendere tono. Mi metto a posto i capelli, già…che capelli ho oggi! Samantha è sul set e ogni tanto mi guarda. Mette le mani a ‘mo di preghiera e le leggo il labiale “scusa”. Le faccio il gesto del pollice: “no problem, darling!”. E aspetto. Ma non finisce mai.
E’ ancora come l’avevo lasciata. Forse anche più bella. Mi era già successo di incontrarla dopo un po’ che non ci vedevamo, e anche in quell’occasione lo stesso disagio, lo stesso sguardo e il non sapere cosa dirsi. Oggi, la stessa identica cosa.
Finalmente fa una pausetta, e chiacchieriamo un po’. A dire la verità io non so nemmeno di cosa sto discettando, ma va bene lo stesso, perché mi ha fatto davvero piacere rivederla. Me la portano via di nuovo, dopo poco. “Io devo andare”, le dico. “Ah, mi spiace…ma non finisce più oggi”. “Dai, non importa, adesso aspetto il mio amico, poi ti mando un messaggio per salutarti…capiterà sicuro di rivederci”. Sorride, e se ne va.
Ormai io sono un complemento d’arredamento del piazzale. Avrebbero potuto anche esserci cinquecento persone intorno, e io non le avrei sentite. C’era una troupe televisiva, e io non l’ho nemmeno vista. Pazzesco. Umano.
Rimango a guardarla per un po’ da lontano, mentre girano le riprese per la nuova pubblicità della IULM. Ogni tanto mi getta un’occhiata, e sorrido se penso a quello che ci è successo. Se penso al passato, e a quanto sia morto e defunto. Se penso alla rabbia che provavo e al piacere che provo ora. Se penso alla sua reazione imbarazzata quando mi ha rivisto. Il tempo è Cicatrene, è il giusto filtro per i rapporti tra le persone. “Eppure ci siamo persi di vista, cara Samy”, penso…
Fabio mi raggiunge, e si torna a casa. Cerco di salutarla, ma me l’han portata via di nuovo. Amen, è stato bello lo stesso.

Ciò che ti ho raccontato può non sembrare così speciale. Ma lo è. Ricordi cosa ti dicevo due giorni fa? La vita è un film, sceneggiato ad arte. Io e Fabio, due ore prima di questo incontro, eravamo in un McDonald's, davanti una vetrata che dà su Vittorio Emanuele, a mangiare hamburger ed insalata e parlando proprio di Samantha. “Mi aveva segnato proprio, caro Fab…”
E’ tutto scritto, perché avrei potuto tornarmene a casa a studiare, invece di seguire Fabio. Avrei potuto tenere lo sguardo basso, invece di guardare sull’altro piazzale, a cento metri da me, e scorgere – che cosa poi? Come ho fatto a capire che era lei da quella distanza? Impossibile riconoscerla…il sesto senso animale è ancora vivo in noi! – Samantha. Avrei potuto guardare il piazzale e notare qualcun altro. Avrei potuto accorgermi di lei, e guardarla da lontano. Avrei potuto ignorarla. Ma la vita ha scelto la via più cinematografica.
L’istinto mi ha guidato altrove. L’istinto? Dico così, ma sinceramente non so cos’è stato. C’è una forza che ci guida nelle scelte che facciamo, ma il più delle volte la sopprimiamo con la testa come un inconfessabile ed imperdonabile residuo animale. E oggi ho fatto divertire i miei spettatori. Fossi in un Truman Show, sarei miliardario.

Beep. SMS. E’ Fabio.
Ti ho iscritto a Il Bivio. Ruggeri ti aspetta domani. Dividi la serata con Papin.

Rido come un beota. La gente – comparse? - intorno a me, sul treno delle quindici e ventitré, non può capire.

E pensare che stamattina avrei voluto scrivere un’apologia del suicidio.
Baciami la fortuna. L’amore conta.

mercoledì, dicembre 14, 2005

L'abbandono

Yaaaawn…è mattina! Senti che profumo di latte che viene dalla cucina…mmm, che buono! Mi sa che è ora che mi alzi…sì…ecco…gnnnnnnnn mi stiracchio tutto in avanti e sento i miei muscoletti tendersi uno ad uno…E’ prestino però…chissà perché papà è in piedi così presto, mentre la mamma è ancora a letto…vado a fargli un po’ di compagnia! Papà è di spalle ai fornelli e si sta preparando la colazione. Mi saluta con uno sguardo distratto e prosegue nel suo intento. La casetta è illuminata appena appena dalla luce che viene da fuori, è davvero presto! Ah, ma allora mi sa che c’è una sorpresa! Papà si veste in fretta, una tuta e un maglioncino leggero…sono i primi giorni d’estate, e fa già un bel calduccio…Che bello…quando papà si veste così è perché mi porta in giro! Wow! Tutto il giorno insieme a correre, giocare, che bella sorpresa! Adoro le giornate all’aperto, le facciamo raramente, ma quando le facciamo…eh eh eh!
Mi chiama con un gesto veloce, come se fosse già tardi e avessimo perso troppo tempo. Lo seguo mentre chiude la porta dietro di sé: via in macchina! Papà apre la portiera e io salto su velocemente, mi siedo dietro, al centro. Sai, io non amo troppo la macchina…ma per giornate così speciali, posso sopportarla eccome! Chissà dove mi porta…magari a quel lago in collina dove faccio sempre il bagno…o in quella valle dove giochiamo sempre a palla sul prato…ho anche qualche amico lì! Adesso voglio proprio scoprire dove stiamo andando…magari mi sto sbagliando e stiamo andando semplicemente al supermercato…ma è presto, si andrà sicuramente in gita! E’ strano che non sia venuta la mamma…però è un periodo difficile per lei…ieri sera si è addormentata coccolandomi e piangendo…forse qualcosa non va al lavoro…o forse papà le ha fatto qualche dispetto…Stasera quando torno la coccolo io, promesso!
Papà è taciturno. E’ strano, perché solitamente è una persona solare e sempre allegra…mah, forse si è alzato presto ed è un po’ assonnato… Fuori dal finestrino gli oggetti scorrono veloci. Case, parchetti, negozi, cartelli stradali. Se cerco di seguire il loro scorrimento quasi mi addormento…NO! Non posso! Devo scoprire dove andiamo… Vediamo, vediamo…mi tiro un po’ su per vedere meglio dal finestrino…sono ancora piccolino, e mi devo appoggiare alla maniglia per sporgermi un po’ e vedere fuori…oh, ma che bello! La campagna! Quanti campi…ne avessi uno io così a casa! Ci inviterei tutti i miei amici e giocheremmo tutto il giorno…deve essere proprio bello vivere qui…però anch’io sto bene nella mia casetta, d’estate è sempre fresco e d’inverno c’è sempre un bel calduccio…
Eccola là! Ecco la montagna! Sììììììììì, andiamo in montagna! Papà mi ci ha portato una volta lì…mi ricordo ancora che sono arrivato a casa tutto sporco e stanchissimo…ho giocato tutto il giorno…e quanti dispetti a papà e mamma! Erano disperati…ma ci siamo divertiti tanto! Che bel verde… Fuori è proprio bello…e deve essere anche freschino…yawwwwn…ho ancora un po’ di sonno…ma sì, dai, posso anche farmi un pisolino…tanto ho scoperto dove andiamo! Evviva!
E’ così morbido il sedile…mi accoccolo un po’ …che buono il profumo di papà…mi piace tanto…quando non è a casa prendo sempre un suo maglione e mi ci addormento sopra…sento il suo odore e mi sembra che lui sia con me…perché quando non c’è un po’ mi manca…anche se la mamma mi vuole tanto bene…però il papà è il papà! Yawwwwwwn, gli occhi mi si stanno chiudendo piano piano…ciao ciao mondo, a dopo…
Siamo arrivati! Mi alzo, stiracchiandomi e tirandomi su all’improvviso, sono troppo felice! Tra qualche minuto sarò libero di correre e divertirmi…grazie papà! Ehi…però…questo posto non lo conosco…è nuovo…papà, ma dove hai accostato? Potesse sentirmi…invece ha la radio troppo alta…Mah, chissà che posto è…magari è bello…ma sì, sicuramente…dai, facciamo in fretta!
Papà scende dall’auto, sbadiglia e si guarda intorno…non c’è nessuno, è ancora presto! Wow! Tutto lo spazio per me! Mi metto in posizione d’attacco, sono pronto a balzare giù non appena aprirà la porta…dai, papà, apriiiiiiii…
Sìììììì, con un gesto veloce papà apre la portiera. Io salto subito giù, non vedo l’ora di portarlo un po’ a spasso e di giocare con lui! Il suo viso è un po’ triste, però…come la mamma ieri…chissà perché…vabè, dai ci penserò io a farlo divertire! Appena saltato giù, papà mi prende in braccio per paura che qualche macchina mi potesse fare del male attraversando la strada…mi stringe forte…dai papà, andiamo andiamo andiamo! Finalmente siamo al prato…con un balzo mi libero dal suo abbraccio e comincio a saltellare e a correre in cerchio…sì, che bello! Oh, che bel raggio di sole che mi scalda…che bella la libertà! Oggi sarà proprio una bella giornata…sole, corse, giochi, poi a casa una bella pappa e tante coccole!
Papà, ma che fai? Daiiiii, vieni! Fa sempre così, ci mette un po’ per cominciare a sciogliersi…Papà mi guarda, ma non sorride. Ha lo sguardo preoccupato. Cosa c’è che non va? Dai, vieni a correre! O prendi la palla, così ti sfido…lo so che sei più bravo di me, ma io mi diverto un mondo…
Papà si gira di scatto e corre verso la macchina… Finalmente si muove, va a prendere la palla! Che bello! Comincio a saltellare di nuovo, in attesa che ritorni…oggi vinco io!
Ma…papà, dove vai?!?! Papà è salito in macchina, ha messo in moto e velocemente se ne sta andando via…perché mi lasci qui? Non vuoi più giocare con me? Papà…corro, corro, corro, cerco di inseguirlo, ma la macchina va troppo forte…e io sono stanco, sono troppo piccolo per riuscire a prenderlo…il cuore mi batte forte…La macchina sparisce all’orizzonte e io sono solo… Papà, grido… Perché tutto questo? La mamma era triste per colpa mia? Scusami papà…Adesso io ritorno dove mi hai lasciato…magari sei andato a comprarmi una palla nuova…ti aspetterò lì…Papà…

Ho tanto freddo. Il sole non basta a scaldarmi. Tremo, mi sento solo. Sono già tre mattine che non vedo più mamma e papà. Mi mancano tanto…Vorrei andare a cercarli… ma non posso…queste sbarre mi bloccano qui, in due metri quadrati di terra e sassi. Ogni tanto passa qualcuno e mi dà qualcosa da mangiare…altri mi guardano e ogni tanto mi carezzano…ma non sono mamma e papà…mi accoccolo di nuovo sul terreno freddo, chiudo gli occhi ed immagino di essere al caldo, sulla poltrona, tra papà e mamma che guardano la televisione. Mamma…papà…

martedì, dicembre 13, 2005

Coincidenze

La convinzione che la vita sia un complesso gioco di coincidenze è ormai sempre meno pallida in me. E’ tutto scritto. Non è un Truman Show, ma quasi ci siamo. Sarebbe bello trovare la chiave per capire in anticipo dove ci porterà il nostro fil rouge. E non è vero che si perderebbe il fascino della scoperta, perché davanti a molte situazioni non sapremmo come comportarci nemmeno a tavolino, pensandoci e ponderando ogni cosa. E’ inutile citare esempi, tutti i giorni qualcosa mi spinge a questa convinzione. Non la vita come nei film, ma la vita-film, sceneggiata sapientemente e impressa sulla pellicola del mondo.
Ahimè, mai riuscirò a sfogliare, anticipandole, le pagine della sceneggiatura della mia vita. Per questo mi accontenterei di poco. No, non mi interessa il boom al botteghino, e nemmeno i premi dei critici. Mi basterebbe emozionare qualcuno.


Aggiunta delle 18.16:

Quid sit futurum cras, fuge quaerere. Ora', mi sa che hai ragione, mi ci dovrò abituare...

lunedì, dicembre 12, 2005

Uomini e/o donne

So che l’argomento che sto per toccare provocherà qualche prurito a te che mi leggi. Devo stare attento, perché pigierò un tasto che è sempre stato tabù e vettore di discordia nell’umana specie. Non si sa chi abbia ragione o chi abbia torto; non lo si saprà mai. Ma ne voglio parlare perché una situazione vissuta oggi mi ha lasciato qualche pensiero. Niente di emo – non almeno stavolta! – ma disagio intriso di umorismo in salsa di dubbio. Specifico. Non giudicherò le persone, non giudicherò le abitudini, non giudicherò l’”abito”. Mi limiterò a descrivervi il fatto e a spiegarvi in poche parole – “ma non ci crede nessuno che ce la fai!”…lo so, ma almeno fammi sperare che un giorno ce la faro! – cosa ho pensato e le solite domande che mi sono posto. Via!
Ti è mai capitato di trovarti davanti ad una persona di cui non sai riconoscere il sesso? No, non le androgine, non quelle donne che sembrano uomini. Mi riferisco a quelle persone che, quando le vedi da lontano o di primo acchito, ti sembrano uomo o donna, ma appena le osservi da vicino o approfondisci l’approccio attraverso l’udito ti sembrano “quell’altro”. Ma sì, dai, non giriamoci intorno: mi riferisco a quelle che appaiono donne ma “ti puzzano di uomo”. I travoni, se vuoi usare le parole che usiamo tutti ma che, davanti ad un uditorio apparentemente open-minded, non useresti mai per non sembrare più “basso” di quanto sei (SEMPRE e COMUNQUE perché c’è qualche persona a cui sei interessato, e solo per quello!). Se ti è capitato, siamo pari.
Mi ritrovo in coda alla cassa di un negozio d’abbigliamento in centro a Milano, cappellino trendy-cheap alla mano. Davanti a me due kotokoto (china, giappa, chiamali come vuoi) con quattro borsoni di abbigliamento. Polemico: “ma si può? Cioè, li fate voi in patria e venite a ricomprarli qui da noi, sovraprezzati almeno del trecento per cento?”. Tocca a me. La prima cosa che noto sono i seni, le curve, le tette, per usare sempre il gergo che quello colto-innamorato-snob non userebbe mai. Due belle bocce iperpushate prendono vita al di sotto di un maglioncino nero mediamente scollato. Le (!) vedo solo il busto e, cavolo!, come fai a non notarle?! O meglio, sempre per non passare per l’arrapato, come fai non notare per prime QUELLE “cose”? Vabè, a dire la verità la persona in questione ha anche un volto. Moment. Non te l’ho ancora detto, ma ti sto parlando della commessa (!) addetta alla cassa. Volto cicciotto, pelle chiara, labbra carnose vestite di un rossetto rosso, occhi scuri pesantemente truccati con mascara e ombretto chiaro. E’ abbastanza alta – o almeno sembra, ripeto, le vedo solo il busto – e decisamente sovrappesuccio. Cioè, non cicciona (altro termine che non userei mai al Cafè de l’Intellectuel Perdtemps), ma in carne, robusta.
Effettivamente a me sembra una donna. E, ti assicuro, a prima vista non solo a me. Però…boh, qualcosa non quadra, non mi convince. “Già, ma che cosa…”, continuo a chiedermi ancora ora, credendo sempre più che il residuale sesto senso animale ci dia ancora qualche aiutino. Parla. “Oh mio Dio!”, sbotto nel pensiero. Questa proprio non mi convince, NON PUO’ ESSERE una donna. Sono un po’ a disagio, lo devo ammettere. Da un lato cerco di guardare davanti a me, ma questo mi porta ad avere un contatto oculare troppo “ravvicinato”. Gigioneggio quindi con una brochure che ho – fortunatamente! – lì davanti, sul bancone. Insomma, non giudicarmi. Mi veniva da ridere, e allo stesso tempo mi vergognavo: che dovevo fare?
Ripasso a mente qualche pagina de I dolori del giovane Bossi e decido di passare alla soluzione finale: le mani. Già, le mani. Devo guardargliele per svelare il mistero. Le mani sono lo specchio della carta d’identità. E la situazione è ottima. Guardo… “Mi sa che avevo ragione”… Le mani la (!) tradiscono. Non posso dirlo con sicurezza, ma la persona che ho davanti è un uomo. Un amico mi dice: “ma le tette sembravano morbide”. Ci penso, ma mi vien da ridere. Ormai è etichettata, è un uomo. La stessa cosa che ho appena descritta l’ha vissuta anche Teo, l’amico che era con me. E sono sicuro che ha pensato le stesse cose. Tette, viso, voce à ma le mani non sbagliano.
Venti minuti dopo siamo per strada. Stangona appariscentissima ci si fa incontro. Non a noi – figurati! – ma sta andando in senso opposto al nostro. Non puoi non notarla, c’ha le gambe lunghissime, ben in vista grazie alla minigonna. Di questa vedo solo la parte inferiore. Ma appena alzo gli occhi, vedo il volto: “un altro trava!”. Ormai son tutti trava. Fobia!
Ok, te la passo, molto probabilmente i tratti sessisti del mio carattere incidono molto su queste vicende, ma non mi interessa questo, adesso. Mi interessano le risposte ad alcune domande. Cosa spinge un uomo a subire una snaturazione del proprio corpo e diventare donna? Appari uomo, ma dentro ti senti donna. E non puoi accettare che il tuo apparire faccia sembrare il tuo essere qualcos’altro. E’ una distorsione del “mondo della vista” o un bisogno intrinseco di chi non si sente bene per come appare? Perché esporsi al ludibrio – è umano, sociale, non diciamo che è sbagliato, semplicemente è, c’è! – invece di condurre la propria esistenza per sé e tra persone che ti rispettano, condividendo solo con esse il proprio essere? E’ una questione di “smisurata ipertrofia dell’ego”, come direbbe un amico, o semplicemente un viatico per essere accettati per quello che si pensa di essere? L’aspetto fisico (l’essere fisico) è davvero così pregnante per ciò che si è dentro? Me lo chiedo seriamente. E non parlo di volgari scimmiottamenti dell’essere donna, quali si vedono in televisione o in determinati ambienti di nicchia, ma di cambiamento radicale, nell’apparire, nel fare, nell’essere.
Cosa spinge a desiderare di essere quello che non si è, rivoltandosi alla Natura, alla vita, al destino?
Sono scelte coraggiose, ma mi sembrano così lontane, remote da quello che è il mio essere, che fondamentalmente non capisco. Non riesco a capirle, forse perché una spiegazione facile non c’è. O forse perché le donne non le capisco proprio… :P


Concludo con un pensiero che non c’entra assolutamente nulla con l’argomento appena trattato. Ti è mai capitato di essere in mezzo a tanta gente e sentirti solo, tremendamente solo? Non in mezzo a gente qualunque, sconosciuta, ma in mezzo a gente che è lì per te, che ti vuole bene e per cui sei importante, che farebbe qualsiasi cosa per te? E’ una sensazione tremenda, di impotenza davanti alla propria emozione, alla propria interiorità.

domenica, dicembre 11, 2005

Muore il giorno

Questa volta non sarò prolisso. O meglio, non lo sarò con le parole. Poche, istintuali. Preferisco darti una copia sbiadito dello spettacolo che ho vissuto in questi due giorni. Uno spettacolo che si ripete ogni giorno da millenni, ma di cui ci dimentichiamo. Perché il tempo per guardare là fuori non lo abbiamo più, perché i nostri gusci ci isolano, ci nascondono alla Natura, perché non sappiamo più emozionarci con poco. Muore il giorno, nasce la notte.

"Uomo e Donna"

"Pressione, la notte"

"Abduction"


"La cella del sole"




"Specchi "


"Ferita"


"L'ultima esplosione"


"Origine"

Ti senti piccolo. Molto piccolo. Ti senti di farne parte. Ma non sai che ruolo hai. Ti senti di troppo. Perchè non sei più in grado di viverlo. Ti senti essere umano. Nè più, nè meno.

giovedì, dicembre 08, 2005

Al centro commerciale

Sono appena tornato dal Carrefour. Oggi toccava a me la spesa per la family. Ebbene, mi son divertito un mondo. No, niente di eccezionale, ma grasse risate nel vedere la gente che c’era intorno a me. A Natale i centri commerciali diventano come la Rai: di tutto, di più. Trovi tutti i tipi di prodotto – incredibile lo stendino elettrico che asciuga i panni...mi chiedo come, dove e quanto, visto che le uniche parti riscaldate sono le barrette su cui si poggiano i panni – tutti i tipi di venditore – dal giangi ultra-accessoriato di 3, al piacione che cerca di venderti il depuratore d’acqua per il lavandino, alla super-figona gonnata che cerca di spacciarti il caffè discount come il migliore della Colombia – tutti i tipi di acquirente, uomo, donna, bambino, o vecchio.
Quando entri in un centro commerciale sotto Natale, la cosa che ti stupisce subito è la confusione. Prima di tutto ambientale, perché ci sono luci lucine lucette che lampeggiano in ogni dove, schermi al plasma che trasmettono tutti la stessa trasmissione e ti rimbambiscono se appena appena cerchi di dargli uno sguardo d’insieme, festoni ed addobbi che spiovono dal soffitto, spuntano dagli scaffali, si materializzano davanti a te in cartonati delle più svariate dimensioni. Ti ritrovi Robbie Williams in formato più che naturale che ti dice di comprare il suo disco, allo stesso modo ti stupisci di quanto siano invecchiati i Pooh che cercano anche loro di elemosinare qualcosa. Confusione poi per le innumerevoli persone che il centro commerciale deve contenere. Intere famiglie – allargate – e coppiette a manetta. Tutti accalcati, schiacciati, concentrati per districarsi nella selva di offerte – ti assicuro che ci capisco davvero poco, sotto le feste ci sono sessantamila cartelloni che ti propongono di tutto, ai più svariati prezzi, e ti ritrovi a prendere un Pandoro Paluani e pagarlo quindici euro perché non ti accorgi di aver sbagliato cartellone dei prezzi – e poi tutti accalcati negli stessi reparti. Home-video, Hi-fi, computer, cellulari, libri, spazio bambini e spazio offerte: nessuno all’abbigliamento, agli alimentari, alle bevande. E ti chiedi: vivono di transistor? Scherzi a parte, non amo la folla – soprattutto dopo aver provato la Notte Bianca di Milano – ma, obbligato a far la spesa, mi son dovuto districare meglio che potevo. Sopportando che qualche carrello cozzasse con le mie già debilitate caviglie, che qualcuno nel reparto scuola mi “rubasse” da sottomano un block notes – l’unico! Possibile che sotto le feste per ogni prodotto le copie sugli scaffali si moltiplichino all’infinito (vedi i libri!) e quando ho bisogno di “quella” cosa, ci sia soltanto un pezzo??!! – e soprattutto qualche odore non proprio chaneliano di ascella. Dai, mi son divertito, e ho incontrato molta gente interessante.
Quelli che hanno fretta. Mi infilo nel reparto giochi per cercare qualche idea interessante per Capodanno. Scaffale giochi in scatola. “Vacca, quanto costano!”, penso, portandomi una mano sul portafoglio. Improvvisamente mi ritrovo sbattuto contro lo scaffale, a 4 centimentri da un 22,89 euro. “E che cazz…”. Dietro di me la classica sfida tra carrelli. Uno in un senso, uno nell’altro, ed è evidente che non possono passare insieme. Ma no, loro DEVONO passare tutti e due! Accelerano, si incrociano e, booom, stridio metallico. Si incastrano. Io sono fortunato, perché con la coda dell’occhio faccio in tempo a buttarmi contro lo scaffale ed evitare l’impatto su una natica. Il signore di fianco a me no, non si accorge di quello che sta accadendo e non fa in tempo ad aprir bocca che viene investito da un fiume di improperi. Inutile rispondere, perché spesse volte si tratta del classico brutus meridionalis infoiatus, specie molto aggressiva! Io qui mi chiedo: lo shopping non dovrebbe essere qualcosa di rilassante, un modo per passare una mattinata, un esercizio per scoprire novità ed offerte speciali? Non dovrebbe essere un momento aggregante? Ma che fretta hai?
Quelli che portano nel carrello qualcosa di ingombrante, talmente ingombrante che urtano contro tutti. Mi capita anche questo. Sono nel reparto scuola e sto cercando il famoso block notes. “Mi scusi signora, grazie…mi scusi, grazie…occhio signora, mi scusi…grazie, grazie”. Vedo un carrello che si muove da solo. O meglio, del conducente vedo solo una mano, tutto il resto è coperto da un enorme mobile di legno e da alcune mensole lunghe circa tre metri che spuntano dal esso tipo baionetta da un fucile. L’omino chiede scusa continuamente, ma continua ad urtare contro tutti e tutto. Impiegherà circa 5 minuti per fare 15 metri di reparto. Finchè trova quello che si incazza. “Ma si può andare in giro così!? E’ pericoloso per i bambini!”. “MA che cavolo vuole?! Pensi ai fatti suoi!”. Nervosetto pure lui. BAM! Giù un intero set di raccoglitori.
Quelli con due carrelli. Uno per la spesa, uno per i regali. E’ di solito il marito a gestirli. Uno spinto con la mano sinistra, in avanti, e uno trainato con la destra, dietro di sé. Anche qui, pioggia di “scusi” e incazzaturine. Fatto sta che rompono le scatole, ma credono di essere nel giusto.
Quelli coi passeggini. Li vedi con i nuovi passeggini SUV a rotellone da fuoristrada, si destreggiano tra persone e carrelli finchè non si trovano davanti ad un ingorgo, e si scocciano. Per capire che persone sono basta guardare le faccia allucinata dei loro bambini, che diventano gli airbag per i loro passeggini de luxe. Tipo l’autoscontro. Lasonil.
La famiglia allargata. Marito con carrello pieno che non ne può più, moglie lanciatissima – spesse volte con un’amica con cui si è data appuntamento in loco – che parla parla parla e acquista acquista acquista. La nonna invece cerca di attirare l’attenzione, vorrebbe un aiuto dalla figlia ma viene ignorata per un paio di pentole Mondial Casa. E i bambini. Quelli li odio. Di solito sono due o tre, uno grande e uno piccolo. Quello grande preme per andare in giro da solo, ai videogiochi, quello piccolo frigna perché vuole sedersi sul seggiolino del carrello ma non può perché lì ora c’è un panettone. E frigna, frigna, frigna, finchè la madre, dopo qualche sgridata poco convinta, se ne frega e cambia reparto. Il padre si mette le cuffie al reparto audio e ascolta un vecchio disco di Fausto Papetti. Resta solo la nonna, che si prende i calci sugli stinchi dal piccolo e si spacca la schiena tenendolo in braccio, mentre fa da sparring partner al grande che gioca a Pro Evolution Soccer. Dramma invece se i bambini sono dello stesso sesso e sono entrambi piccoli. E magari maleducatelli. Prendon tutto dagli scaffali, lo schiaffano per terra, ci giocano – caso più eclatante, settore sport, coi palloni da calcio - i genitori cercano in ogni modo di fermarli ma non ce la fanno e cercano di limitare i danni. Finchè uno dei due si fa male, e frigna. “Via, si va a casa, con voi non si può stare in giro”. Sciaf, ceffone sul deretano e tante altre frigne. Io da piccolo non ero così!
La coppietta che litiga. Di solito lei sta davanti, muso scuro e interessato più che ai prodotti a far incazzare il partner. Lui, che sa di aver ragione, fa finta di nulla e per conto suo spulcia qualcosa dagli scaffali ma non compra niente. “Ma scusa, perché devi fare così?”, cerca lui di attirare l’attenzione, maneggiando una palla d’albero di Natale. E lei: “ti ho detto di lasciarmi stare, sei odioso!”, braccia incrociate al petto e grugno da bambina viziata. La pallina ri-vola nel cestone e lui, “vabè..fai come ti pare, quando ti passa dimmelo”. Li ritrovi all’uscita mano nella mano, lei sorridente, lui pure.
L’eterno indeciso. E’ quello che ti ritrovi al banco salumi, nella sezione dedicata agli affettati imbustati. Tu vorresti semplicemente prendere una busta di prosciutto crudo, più o meno in testa hai già un’idea, o una marca o l’altra, di solito quella che costa meno. Ma non puoi, non ce la fai perché hai questo personaggio davanti. Occhiali ben inforcati, carrello alla sua destra o sinistra – sempre e comunque nella zona a cui tu sei interessato – concentrazione a livelli d’esame di maturità, prende ogni singola busta, di ogni singola marca e legge tutto quello che è possibile leggere. Poi confronta i prezzi, la “presenza” delle fette di prosciutto. Dopo dieci minuti è ancora lì, e la scelta si è ristretta a due prodotti. Legge il peso, guarda verso l’alto e fa un rapido calcolo. Decide: lascia lì entrambe le buste e dopo pochi metri prende un Negronetto da 300 grammi. Il tutto senza accorgersi di te. “Oh, mi scusi”. BAM, carrellata sul ginocchio.
Quelli che vanno alla cassa “10 pezzi” con 20 pezzi. Li vedi sempre decisi, sorridenti, facce di latta. Arrivano alla cassa, fanno la fila – sempre e comunque insultati da chi è dietro, soprattutto se la fila è talmente lunga da cominciare nel corridoio centrale del supermercato – e, quando è il loro momento, rovesciano una marea di prodotti sul nastro nero. La cassiera: “Questa è una cassa dieci pezzi, voi non potete venire qui con tutti questi prodotti!”. Di solito sono in coppia, ci pensa la donna: “Ma vede…abbiamo preso più pezzi di uno stesso prodotto in offerta, pensavamo contassero come un prodotto solo”. “Signora, sì, ma lì c’è scritto dieci pezzi, non prodotti”, risponde seccata la cassiera. “Oh, mi scusi, non abbiamo capito…certo che potreste essere più chiari”, con sicumera tale da meritarsi una DeFonseca in bocca. “Vabè, vi faccio il conto lo stesso”, risponde la cassiera, preoccupata di un eventuale reclamo. Pagano e se ne vanno, consapevoli di aver fregato ancora una volta noi poveri mortali che rispettiamo le regole. Una volta arrivati lì, infatti, chi poteva mandarli indietro? Sarebbe stata solo una perdita di tempo. Il cliente furbo ha sempre ragione.
Quelli che arrivano alla cassa, ma sul prodotto non c’è il codice a barre. Autentici creatori di code modello Salerno-Reggio Calabria. “Non c’è il codice; o lascia qua il prodotto, o ne prende un altro…”. “No, ok…caro, vai a prenderlo te?”, dice la donna rivolta al compagno che, già con le palle piene, non ha la minima idea del punto in cui ritrovare quel prodotto. Ma ci va, da buono zerbino, e ci mette una vita. Di solito tra i cinque e i dieci minuti. Nel frattempo gli inservienti portano da bere alle altre persone in coda, ci sono svenimenti e si creano nuovi flirt. Finalmente arriva. Sembra che abbia corso. In realtà se ne è andato in andatura beata per tutto il percorso, per accennare uno sprint non appena fosse stato in vista. “Scusatemi, non lo trovavo proprio”, ti dice sorridendo tipo il medico Mentadent. Ridi per finta anche te, ma perché compatisci la sua condizione di subalterno. “Guardi, questo codice a barre è sbagliato, indica un altro prodotto”. “Ma caro! Come si fa?”. Prende di peso la moglie, la sposta, e fa per uscire. “Le prendiamo la prossima volta”. Man power!
La lista non è finita; anzi, si arricchirà in questi giorni di feste e di regali. Per qualche giorno non ci sarò, via dal caos e dagli scaffali per immergermi nel gelo e nella natura. Ma son già preoccupato per il mio ritorno. “Mi accompagni a prendere i regali di Natale?”. “Sì ‘ma, dimmi te quando preferisci”.

mercoledì, dicembre 07, 2005

Hey man, you're great!

Riprendo in mano il blog per raccontare un altro episodio vissuto sui magici trasporti pubblici milanesi pochi giorni fa.
Finita la lezione all’università – sono le 14.35 – salto sulla 24 per tornarmene verso il Duomo e poi a casa. Sono in piedi dalle 5 del mattino perché ho dovuto portare all’aeroporto mio padre, e gli occhi sono quindi due mezzelune spente: ho solo voglia di una doccia e del mio bel lettino! Inforco gli auricolari del lettore mp3 e cerco un posto a sedere. Mannaggia, non ve n’è nemmeno uno! “Meglio”, mi dico, “così non mi addormento…anzi, proviamo a leggere la Gazza, magari mi sveglio”. Prendo la rosea, ma dopo tre righe le parole si mescolano in un vortice pazzesco, non riesco a stare concentrato e mi addormento in piedi. Mi do allora al mio passatempo preferito sui mezzi pubblici: scruto la gente intorno a me. “Bene bene, vediamo chi mi fa compagnia…”. Seduto sui sedili non c’è nessuno che attira la mia attenzione, tranne un ragazzo coi capelli molto simili ai miei, trattati con un prodotto – presumibilmente cera – che glieli rende stilosi al massimo e non “cascosi” come i miei. Non fosse stato con la sua tipa a sbaciucchiarsi, gli avrei chiesto qualche consiglio. Di fronte a me la situazione è migliore. La tipica coppia di amiche, quella bella e il cesso, che parlano di altre loro amiche che se la filano con qualcuno di imprecisato. La tipa carina mi piace anche, ha un non so che di spagnoleggiante, latino…strano, per uno che ha sempre pensato di sposarsi una finnica! Le guardo per un po’, ma mi stufo subito perché il “cesso” comincia a guardarmi pensando che io stia guardando lei: mi fingo cieco. Alla mia sinistra, però, si svolge una scena interessante. Una di quelle scene che fan nascere domande solo a me, ma questo mi basta per stare sveglio!
In piedi, proprio su uno degli snodi rotanti delle vetture del tram, ci sono due ragazzi sulla venticinquina, rossi di capelli, carnagione chiarissima, avvolti in due trench scuri che coprono abiti fondamentalmente eleganti. Parlano inglese. “Azz, senti che slang!”. Sono yankee, più yankee di così… Ho la conferma di questo non appena scorgo, pinzato sul petto del più giovane dei due, un cartellino indicante nome, cognome, la parola Jesus Christ, e il nome di una non precisata associazione o confessione cristiana. “Sono due mormoni”, dico tra me, quando so solo che molti sono nello Utah, ma che cosa siano dei veri mormoni non lo so proprio. Mi piace sapere di sapere, anche quando ne so veramente poco. “Chissenefrega, tanto son da solo”. Dai, passami il termine, son mormoni. Ai fini del testo non è importante. Dicevo, ci sono questi due ragazzi che parlano tra loro abbastanza animatamente. Osservandoli bene, capisco subito che uno dei due è più esperto e che nel nostro Paese ci è già stato. Ed è proprio questo che scende dopo due fermate – col suo borsone nero da una delle cui taste appariva una piccola Bibbia tascabile – e lascia da solo il più giovane. Fin qui, niente di eccezionale. Ma…
Decido di concentrarmi sul viso del giovane che, ad un’analisi attenta, è visibilmente preoccupato di qualcosa. Si guarda intorno, inquieto, come se non capisse dove fosse e cosa dovesse fare. Evidentemente il suo “capo” non gli aveva dato le indicazioni necessarie, o lui non aveva capito. Si sente terribilmente spaesato, e solo. “Strano per uno yankee”, mi dico.
Gli occhietti piccoli continuano a cambiare obiettivo. Prima il finestrino, poi la gente intorno, poi ancora il finestrino, dietro, davanti a sé, il finestrino sulla parte opposta. Ogni tanto si abbassa un poco per guardare fuori, come se cercasse di capire dove scendere, e soprattutto dove fosse.
Ad un certo punto prende il coraggio in mano e, dopo aver scrutato ancora una volta la situazione, cerca di parlare con un ragazzo seduto su un seggiolino singolo davanti a lui. Il modo in cui lo cerca fa quasi tenerezza: ditino sulla spalla e “sorry but…”.
Che c’è di strano? Il tipo! Immaginati un Reno Raines (il protagonista di Renegade) più basso e grassoccio, barba incolta e capelli più mossi. Indossa un paio di jeans chiari sdruciti, non per un taglio fashion, ma per l’usura (sembrano anche sporchicci), anfibi ai piedi e, tocco finale, un bomber dell’Avirex verde. Con sé ha un sacchettino, consumato e conciato male pure questo, contente non so che cosa.
Da buon ragazzo che vive di pregiudizi, mi son chiesto: ma perché proprio lui? Insomma, intorno avrai si e no quaranta giovani universitari che più o meno l’inglese sai che lo masticano, perché proprio quell’uomo? Perché uno con una faccia non del tutto rassicurante e che, a prima vista, d’inglese può non sapere nulla?
Si impara dalla vita. Io ho imparato qualcosa, cioè che ancora una volta un mio pregiudizio era sbagliato. Al solito. Cos’è successo? Insomma, il mormone e l’uomo che aveva interpellato cominciano una discussione intensissima, rispettandosi l’un l’altro, in inglese! Da quello che ho capito – avevo gli auricolari e non capivo bene cosa si dicessero – il mormone ha chiesto qualche indicazione sulla strada, poi però la discussione si è evoluta quando l’uomo ha cominciato a fargli domande su Dio, sul suo credo, tanto che il ragazzo ha estratto anche la Bibbia per fargli leggere un piccolo brano. Si capiva chiaramente che l’uomo non era credente, e cercava di capire perché il ragazzo avesse intrapreso quella strada. Uno scambio incredibile, per essere su un tram alle tre del pomeriggio.
La cosa che più mi ha colpito, oltre all’inglese fluente dell’uomo, è stata l’espressione del ragazzo non appena ha capito di trovarsi qualcuno davanti CHE PARLAVA LA STESSA LINGUA. I due occhi lampeggianti lasciano ben presto spazio a due occhi sorridenti, sicuri, curiosi interlocutori di una persona con cui non si condivide nulla, se non la presenza su un qualsiasi tram di Milano. Il volto preoccupato si trasforma e diventa concentrato, a tratti sorridente, sicuramente fiero per la difesa del proprio credo. E ritorna uno yankee quando, prima di scendere dal treno – questo l’ho sentito bene – tende la mano all’uomo con cui aveva condiviso venti minuti di discussione con queste parole: “Hey man, you’re great!”.
Due lezioni oggi. Uno. Non sempre l’abito fa il monaco – mea culpa!. Due. Condividere qualcosa è l’antidoto migliore per ogni paura.
Mi chiedo. E se l’avesse chiesto a me? Io, che tanto mi crogiuolo nella mia “cultura”, nel mio essere curioso, gli avrei chiesto il motivo della sua scelta? Gli avrei chiesto perché? Lo avrei messo a suo agio oppure, dopo un “It’s the last one”, mi sarei rimesso gli auricolari nelle orecchie, più spaventato per la paura di non essere in grado di portare avanti una discussione in lingua straniera, che irritato per il disturbo?Il giovane yankee è stato fortunato, e non si è fermato alle apparenze. Io pure, ma sulle apparenze costruisco le mie mura difensive. Hey man, you’re great!

martedì, dicembre 06, 2005

Oggi me lo tiro

Sono così normale da sentirmi quasi speciale.

lunedì, dicembre 05, 2005

Pregiudizi letterari

Ho quasi finito di leggere – ed è la terza volta, quest’anno – I dolori del Giovane Werther di Goethe. E’ un libro che ho scoperto tardi, troppo tardi. Ma è un libro meraviglioso.
Lascia da parte il mio essere “emo”, ma concentrati sulla purezza delle descrizioni del sentimento, sull’elan vital sprigionato dall’autore ogni qual volta parla di natura, di amore, della sua Carlotta, sul coraggio di un uomo che riconosce la sconfitta, ma non la può accettare.
E soprattutto, lascia perdere il pregiudizio che lo descrive come un libro palloso, perché è detto da chi ha letto il libro e non l’ha vissuto. No, viverlo non significa immedesimarsi. Significa cogliere l’emozione e il sentimento da ogni parola, immaginarsi spettatore dietro ad un vetro e cogliere le cangianti espressioni di un ragazzo, un ragazzo qualunque. E’ palloso forse perché è “negativo”? E dove la si coglie questa negatività? Leggiti le lettere datate 17 maggio, 1 Luglio o 8 luglio: puro ricordo, emozione, riflessione gioiosa. E come queste tre lettere tante altre, che con semplicità descrivono il focoso crescere del sentimento di Werther. La gioia. La felicità. La soddisfazione della ricerca perenne. Descrivono un uomo capace di emozionarsi.
Forse perché non c’è l’happy ending? L’happy ending c’è, ma solo per lui, Werther, che nel suicidio trova la possibilità di vivere quell’amore e quell’incomprensione che lo affliggono. Essere protagonista del proprio sentimento, ma da dietro un vetro. COme te.Ma questo, lo so, è un commento non condivisibile da tutti e te ne do atto…
Le descrizioni della potenza e del fascino della natura sono meravigliose, l’esaltazione dell’essere bambino è lezione per ogni uomo che ha perso entusiasmo, il rispetto per i “villani” è simbolo di un uomo che per accettare se stesso ha prima capito e accettato gli altri.
E’ un libro che a scuola ti fanno leggere a forza. E che non mandi giù. Già, anche perché a 15-16-17 anni è un libro che non puoi capire, o forse non vuoi, proprio perché ti senti lontanissimo da Werther In realtà fuggi solo la paura di condividere con lui lo stesso destino di sofferenze. Perchè NON PUO' essere così.
Con queste quattro righe voglio rompere l’incantesimo malefico e ridare dignità, rispetto e considerazione positiva ad un libro troppo bistrattato (ai tempi anche da me, lo ammetto).


… il malumore non è che un’intima insoddisfazione della nostra propria inferiorità, un malcontento di noi stessi, il quale è poi sempre collegato ad un sentimento d’invidia, e questo alla sua volta è aizzato da un sciocca vanità? Vediamo persone felici che non debbono a noi la nostra felicità; e questo è intollerabile. (1° Luglio)

…ed io sentii il suo cuore, la sua anima grande, alla cui presenza mi pareva d’essere più che io non fossi, appunto perché ero tutto quello che potevo essere. (17 Maggio)

domenica, dicembre 04, 2005

Detto Norvegese

Non esiste il cattivo tempo, ma solo vestiti sbagliati.

sabato, dicembre 03, 2005

Una bella giornata in montagna

Sto ancora sognando di essere sul palco di Woodstock a fare il dito medio al pubblico davanti a me, quando un piccolo brividino mi scuote tutto. Toc Toc, è il mattino che è venuto a farmi visita! La stanza buia è tagliata in due da un piccolo fascio di luce che illumina la parete alla mia sinistra. Sono nel mio letto formato matrimoniale, avvolto nel piumone e ancora un po’ stordito. Scosto un po’ la coperta e allungo la mano per pigiare l’interruttore che aziona il “motore-tira-su-tapparelle”. Frrrrrr, appena svegli è così molesto, fastidioso, ma per fortuna dura poco, mi bastano pochi centimetri per scorgere quello che c’è fuori. Mi siedo sul letto, le gambe ancora sotto le coperte, e scopro che è una splendida giornata. E’ mattino da poco, ma il sole è già luminosissimo. Il cielo azzurro cozza con il bianco delle montagne e i pini innevati lasciano intravedere ancora qualche riflesso verde. Le piste sono ancora deserte, c’è solo un bobcat che va su e giù per il manto nevoso. La strada è ancora deserta, molto probabilmente stanno tutti ancora dormendo. “Bene”, mormoro tra me e me, “dormite pure…così io mi godo le piste in solitaria!”. Decimi di entusiasmo che mi danno la forza di scendere dal letto, recarmi al fornello e mettere su l’acqua per una cioccolata calda. A dire la verità, vengo colto da un dubbio non appena metto piede a terra. “Ma chi me lo fa fare? E’ così splendido rimanere a letto, al caldo, rilassato…ho bisogno di riposo…e poi senti che freddo!”. Il dubbio non è sufficientemente forte, tanto che vado in bagno per le procedure di rito. Lavo i denti, mi sciacquo la faccia con l’acqua gelida, – adoro la sensazione di gelo che mi pietrifica la faccia e la conseguente sensazione di bollore che me la fa scoppiettare – mi sistemo i capelli tirandomi giù il ciuffetto. Sorrido, e per qualche secondo tento di improvvisare qualche sguardo da Hollywood, qualche posa da western e un balletto alla Travolta. “Mi sento proprio bene stamattina…son davvero un figo, eh? Caro specchio, da quant’è che non mi vedevi così?”. Mi piace alzarmi e sentirmi a posto con me stesso oltre ogni limite di vanitosità, perché significa che oggi sarà una bella giornata. Non mi taglio la barba, un po’ perché non ho voglia e ho fretta di uscire, un po’ perché mi fa sentire più “duro”.
La fragranza della cioccolata calda invade la piccola casa e mi fa dimenticare dei –10 gradi che ci sono fuori. Ad ogni cucchiaiata prendo vigore e comincio a pensare che sono già in ritardo, che la “mia” neve è la fuori ad aspettarmi. Ho in mente un paio di discese alternative, e oggi è il giorno giusto per farlo. Preso da un’insolita frenesia, riavvolgo totalmente le tapparelle e guardo fuori il paradiso che mi attende. Piccoli spifferi punzecchiano i miei piedi, ma il sole mi sta baciando e abbracciando, chiamandomi a sé come la più cara delle amanti.
In pochi secondi indosso la tenuta da sci e mi precipito alla macchina che mi aspetta nel garage sotterraneo. Gli sci sono ancora lì da ieri, sul portapacchi, mentre gli scarponi mi attendono nel bagagliaio. Parentesi. Adoro indossare i famosi Moon Boot. Sono così morbidi, accomodanti, sembra che ti carezzino il piede. Diventasse moda li userei anche per andare al lavoro, al posto di quelle scarpacce in simil pelle che mi tocca indossare per sembrare più importante di quello che sono. Ma oggi delle convenzioni sociali non me ne frega nulla, vamos coi Moon Boot! Le ruote, in assetto da guerra perché coperte dalle catene, scricchiolano sul manto stradale: mi sembra di guidare un cingolato, niente mi può fermare!
Dieci minuti e sono arrivato. Il paesaggio ora è un pochino più popolato, c’è qualche macchina, ma gli impianti mi sembrano ancora deserti. “Bene, ora siamo io e te…”, sussurro scendendo dalla macchina e stiracchiandomi portando le braccia verso l’alto. Inspiro profondamente e mi gusto la purezza dell’aria, assaporando il freddo che mi entra dentro e mi fa sentire vivo.
Adoro i miei sci. Li ricevetti in dono da mio padre quando avevo dodici anni. Sono ormai molto vecchi e suscitano ilarità quando i ragazzini li vedono, ma non mi interessa. Se penso alle innumerevoli discese che hanno sopportato e soprattutto al lungo periodo di pensione cui sono stati costretti una volta diventati miei, mi gaso. “Se una Carrera dell’80 è un macchina al top, perché non devono esserlo gli Spalding del ’75? Voi siete la mia Carrera, andiamo, va…”. Sci in spalla, scarponi ai piedi ma non ancora allacciati, cammino a passo svelto verso il piccolo ufficio dove comprerò lo ski-pass per la giornata. Din din, il tocco di una campanella sveglia un giovane ragazzo del posto, che mi accoglie svogliatamente. “Dica”, mi dice passandosi una matita tra le dita. Di primo acchito vorrei tirargli una castagna in faccia, ma…”Vorrei il permesso per la giornata”. “25 euro e 30 centesimi”, mi dice, inserendo la cifra nel computer e consegnandomi il tesserino. “Ecco, tieni”. Pago, prendo il tesserino e, senza salutarlo, mi reco all’uscita. “Ma signore, il resto!”. “Tienili per te, ma sorridi ogni tanto”, gli dico facendo il gesto del pollice alzato. Mi saluta con un cenno e un “ciao”. Sì, oggi è proprio una gran giornata, mi sento proprio bene!
Finalmente siamo io e la montagna, io e la neve. Faccio qualche esercizio per riscaldarmi e sento il corpo che risponde perfettamente ai miei comandi. Fantastico poi è sentire il calore che piano piano invade il tuo corpo e gli dà vigore. L’operazione di stringere gli scarponi mi ruba qualche minuto – sono molto pignolo in questo – però ora sono pronto. Mi chino e ripeto il mio solito gesto scaramantico. A mani nude, raccolgo un pugno di neve e lo annuso, bagnandomi poi le labbra. L’ho sempre fatto fin da bambino e mi ha sempre portato fortuna. Quel gesto poi mi rende un tutt’uno con l’ambiente circostante, è l’equivalente di un “permesso, posso entrare” detto quando si entra in uno spazio altrui. Sigla il mio patto di rispetto con la montagna.
Impugno con forza il piattello dello skilift e mi preparo alla risalita. E’ incredibile come ogni volta sia come la prima, come quell’insicurezza del primo tentativo non ti abbandoni mai ma, anzi, ti fa ricordare di stare attento perché tu sei già caduto, tu hai già fatto ridere tutti gli altri sciatori, tu ti sei già fatto male, in passato. Ora hai la forza di riderci sopra e di pensare a quanto fossi stato ingenuo, al tempo. Questi pensieri mi distraggono un po’, ma vengo subito riportato alla realtà dalla visione dei primi sciatori. “Qualcuno è stato più sveglio di me”, rimugino. “Ma siamo ancora pochi, possiamo gustarci le nostre discese…anzi, guarda quello lì, mica è capace!”. “Però quello fila…azz, che lippa!”. In pochi minuti sono in cima. Lascio il piattellino e mi metto in equilibrio sui miei bolidi. E’ tanto tempo che non li porto a fare un po’ di manutenzione, ma scorrono ancora bene. La prima pista è davanti a me, è la famosa “Maiala”, chiamata così perché la montagna forma una grossa conca che si conclude con un bel salto (che ricorda la forma della schiena di un maiale). Non è difficile, ma è la prima della giornata ed è la prima dopo tanto tempo. Sistemo bene gli occhiali, il cappello di lana, e con due colpi di bacchette sono in corsa.
Nelle prime fasi sbatacchio un po’ gli sci per pulirli dalla neve e per sentirli più “miei”. “Andiamo belli, si vola!”. Acquisto subito velocità, l’aria è ancora fredda e mi taglia le poche parti di viso rimaste scoperte, ma è una sensazione bellissima, perché sento che l’aria c’è, che mi permea. Nella vita di tutti i giorni non la sento, ora sì: come un pesce nell’acqua, io uomo nell’aria. Fantastico!
La neve è morbida, non c’è ghiaccio, e scendo che è un piacere. Voglio farla a tutta, zigzagando continuamente come piace a me; le traiettorie ampie e il panorama me li gusterò più tardi, al tramonto. Sento le fibre dei muscoli che lavorano una ad una - non so perché ma penso ai marinai di una trireme che all’unisono lambiscono l’acqua coi remi – il cuore che batte a velocità costante, il sangue che mi scorre fluido nel corpo. Sto dando il massimo, ma non sento la fatica. Sto volando, ma non ho paura. Mi preparo al salto. Mi accuccio, piegando le gambe, e stendo i bastoncini paralleli alla mia schiena bloccandoli sotto le ascelle. Cerco lo stile perfetto, ma nessuno me l’ha mai insegnato: sarei curioso di rivedermi alla tv, potrei scoprire che quello che io penso di fare con stile in realtà sia un pernacchione all’estetica sciistica. Ma tant’è, ora non c’è tempo di pensare, c’è da stare concentrati! Con tutta la forza che ho nel corpo spingo verso l’alto, le ginocchia scricchiolano ma si comportano da bravi argani e mi fanno spiccare un volo che a me sembra immenso, divino. Perdo il contatto col terreno: volo! Pochi secondi, bastano pochi secondi, e sono felice. Sembra che tutto scorra al rallentatore, che il paesaggio intorno si sia fermato, immobile e silenzioso. “Diavolo, mi sento unico! Che fottuta sensazione di divinità!”.
Pochi secondi, e la prima discesa è finita. Due, tre, quattro volte ancora. Poi cambio e vado all’”Imbuto”, pista che parte larga e non troppo pendente, ma che negli ultimi metri si restringe dentro due costoni di montagna. E la pendenza diventa terrificante. Da piccolo avevo il terrore anche solo a vederla, ora no, non oggi che mi sento bene. Altri due sciatori stanno scendendo indecisi. “Sei mia”. Mi accuccio a uovo, per prendere più velocità e anche per far vedere ai due “amici” che IO sono capace di sciare, che so dominare l’Imbuto. Ne supero uno, che mi guarda attonito. Il secondo mi urla qualcosa che non capisco, perchè fondamentalmente non mi interessa. Ormai sono velocissimo, sento le gambe un po’ rigide, ma ancora sotto controllo. Gli sci scorrono veloci, mi sembra di essere sulla biga di Ben Hur. Ho caldo e sono concentrato, tanto che di nuovo non sento l’aria gelida che mi taglia la faccia. La strettoia è a 100 metri da me ormai, in pochi secondi dovrò infilarmi lì dentro senza paura. So che troverò del ghiaccio nella parte in ombra. Mi sento furbo, sveglio, dominatore della situazione. Sicuro, come mai in vita mia. E infatti sbaglio.
Comincio a scompormi, non riesco a controllare gli sci. Il terreno sotto di me si è fatto scostante, una texture di cunette e ghiaccio. Lo sci di destra si comporta in un modo e, una volta che l’ho dominato, lo sci di sinistra cade nella trappola di un’altra cunetta. La velocità è folle, e rischio di perdere il controllo. Le punte degli sci sbacchettano, cerco di non farle sovrapporre ma non ci riesco. L’unica soluzione è rallentare, ma non posso farlo, sono a 10 metri dall’imbuto! Improvvisamente lo sci di destra si pianta, e la gamba con lui. Una fitta all’inguine mi avvisa che è finita, che ho perso la sfida. Mi lascio cadere in modo da ricompattarmi al suolo, entrambi gli sci si staccano, così come uno dei due bastoncini. Sono lucido ma non riesco a capire quello che mi succede intorno. Continuo a rotolare, senza perdere velocità. Vorrei controllare le braccia per non farle sbattere, ma sono impotente, un burattino. Ogni cunetta è un pugno e la neve è uno spillone nel mio collo. Penso a quando finirà tutto, dopotutto mi convinco che siano solo pochi secondi, poi tutto passerà. Penso anche alla traiettoria che ho preso e cerco di capire se finirò nell’imbuto o se uno dei due costoni sarà la mia dimora eterna. Urlo, una fitta terribile a metà schiena. La testa viene trascinata all’indietro, ho quasi paura di perderla tanto la botta è forte. Ma ora sono fermo, non so come ma mi sono fermato. Della neve continua a cadermi addosso in grandi blocchi, anche sulla faccia ormai bollente. Rimango sdraiato così, su un fianco, per qualche secondo. Non sto provando dolore, non devo essermi rotto nulla. “Certo che è terribile rimanere lucidi…e non capire che fine farai”.
Provo a tirarmi su, ma ecco di nuovo la fitta alla schiena. Non è un dolore atroce, ma mi rende goffo e incapace di riprendere subito il controllo dei miei arti. Riesco a mettermi seduto, poggiandomi sulle braccia stese all’indietro. Intravedo i miei sci a pochi metri da me, ma non la bacchetta. Ho perso anche gli occhiali, tanto che il sole mi brucia gli occhi e faccio fatica a tenerli aperti.
“Certo che poteva andare più piano…si è fatto male? E’ pazzo a scendere a quella velocità, è l’Imbuto!”, una voce mi rivolge queste parole da qualche punto imprecisato alle mie spalle. Mi giro, e vedo una tuta rossa, che mi sembra di aver già visto. Ma sì, è uno dei due incapaci che ho superato prima! “Che cavolo vuole da me?”, penso. Ma dico: “ah, niente, sciocchezze, non mi son fatto nulla, mi è già successo altre volte…ormai l’Imbuto per me è una sfida…sempre più veloce…sa, adoro superare i miei limiti!”. Mi sento uno sfigato, ma parlando così mi sembra di essere un figo. Almeno oggi. “Poteva farsi male, molto male, lo sa?”, aggiunge la voce in avvicinamento. Non ho voglia di voltarmi, ma non ce n’è bisogno: finalmente riesco ad aprire gli occhi, una figura umana copre il sole così molesto. “Ecco, questa deve essere sua”, dice, mostrandomi la bacchetta. Il mio interlocutore si toglie gli occhiali, e poi il cappello. Meraviglia, stupore, incredulità. Intravedo lunghi capelli lisci che si librano morbidamente prima di poggiarsi sulle spalle, occhi così chiari che quasi feriscono i miei per la loro brillantezza, una pelle chiara, che si arrossisce appena sulle gote di un viso dai lineamenti morbidi e delicati. E un sorriso candido, solare, come pochi ne ho visti nella vita. E’ un donna. Una bellissima donna.
Grazie davvero”, dico io, cercando di tirarmi su in piedi. La schiena mi fa malissimo, proprio ora non posso dimostrarmi debole. “Le fa male?”, mi dice. “Scusi?”, rispondo. “LA schiena…mi sembra che le faccia male…”, dice indicando la mia mano che tocca un fianco. Mi ha scoperto. “Ma no, si figuri…cosa vuole che sia…meglio una botta così che una settimana in ufficio!”, provo la battuta, cercando di essere simpatico. Quel sorriso mi ha steso. Lo voglio rivedere. Pochi secondi, e lei sorride. Come potrò farne a meno ora? Perché sento quell’irrefrenabile desiderio di baciarlo, quel sorriso? Dopotutto, mi dico, devo lasciar perdere, son venuto qui per sciare, per stare tranquillo, per dimenticare tutto. E sto così bene, con la neve, le discese, no, non è possibile, ho preso solo una grossa botta. Mi devo riprendere! Non mi manca niente, posso fare a meno anche di quel sorriso. Cosa vuoi che sia un sorriso…
“E’ solo, qui?”, mi chiede mentre mi sto togliendo la neve che ho ormai in ogni dove. “Sì…una piccola vacanza…sa…ogni tanto ci vuole!”, rispondo abbastanza impacciato. La bocca non segue la testa, la testa è troppo lenta per costruire un discorso intelligente. “Io sto andando allo chalet a mangiare qualcosa, le va di farmi compagnia?”. Trasalisco. “Ma no, si figuri…”, anche se seguirla è la cosa che più desidero al mondo in questo momento. “Allora arrivederci, e mi raccomando vada più piano la prossima volta!”, mi dice inforcando gli occhiali e ri-indossando il cappello senza però raccogliere i capelli. Si volta, e se ne va. Le vene mi bollono, la seguo con lo sguardo e apprezzo la sua sciata insicura, ma morbida ed per certi versi elegante. Scivola sulla neve, leggera, come se non volesse farle male. “Chi sei tu?”. Scuoto la testa, e ciondolando riprendo gli sci. Intorno ormai la pista si è riempita, grandi e piccoli scorrazzano su e giù. Qualcuno è caduto, altri stanno facendo lo slalom tra gli altri sciatori. Ma mi sembra di essere in una bolla. Non sono più lì. “Ah, svegliati!”, urlo a me stesso picchiettandomi la tempia col palmo della mano. Riprendo a sciare molto lentamente, guardandomi intorno e controllando ogni scricchiolio delle mie incidentate membra. “Per la mattinata è tutto”.
Sono le 2 del pomeriggio, e mi vien fame. Soprattutto, cerco un posto caldo dove potermi sedere e riposare un poco. Penso all’incidente che ho appena subito, e mi chiedo come abbia fatto a non farmi nulla. “E’ proprio una bella giornata”, penso, sorridendo davanti al menu. Non bado a spese, oggi mi sfondo. Gusto ogni forchettata, ogni morso, sento il calore del cibo che mi entra dentro e mi pervade benefico. Intorno a me tavolate di gente rumorosa fanno a gara a chi la racconta più grossa, alcune mamme cercano di tenere a bada i figli che vogliono uscire da soli a sciare, mentre i papà sono al telefonino con il volto scuro. Ci sono poi delle signorotte sulla cinquantina che giocano a carte e ogni tanto gettano qualche sguardo su di me e ridono come ochette. “Tanto ne avete ancora per poco”, sogghigno.
Ah, che dolore”. LA schiena mi si infiamma di nuovo, ancora lì, in quel punto. Ma non è la botta, è un dolore più intenso. E soprattutto non capisco da dove arrivi. “Mi scusi signore, davvero, non volevo...sono inciampata”. Una ragazza cicciotella, fasciata da un grembiule nero, è china sul pavimento e con dei fazzoletti cerca di tamponare qualcosa. E’ visibilmente imbarazzata, arrossisce, continua a chiedermi scusa. Capisco tutto. “Non ti preoccupare, son cose che capitano”, le dico dandole una pacca sulle spalle. Le prenderà dal suo capo, almeno io le risparmierò la ramanzina. Dopotutto non è colpa sua, se quel giangi dietro di me non avesse portato dentro i suoi sci in carbonio spaziale… Non ero nemmeno troppo irritato, nonostante avessi appena ricevuto sulla mia schiena l’intero contenuto di una teiera bollente.
“Certo che oggi è la sua giornata fortunata!”. Alzo gli occhi, e di nuovo quel sorriso. “Eh già! Però…è lo stesso una bella giornata!”, dico io, visibilmente imbarazzato. Tremendamente imbarazzato. Non so cosa dire, perché non c’è niente da dire. Vorrei poterla guardare senza che lei mi scorga, poter mirare i suoi capelli morbidi, ora legati in due code, apprezzare l’eleganza che trasuda anche da un’abbigliamento troppo grande e goffo, che non rende giustizia al suo fisico snello e sportivo. Proprio come quando volavo sul salto della Maiala, il tempo si ferma, pochi attimi si trasformano in secondi interminabili, belli. Si siede davanti a me. Rispetto a me è molto più rilassata. E’ allegra, e continua a fissarmi e a ridere, come se scorgesse in me qualcosa di buffo e di divertente. “Ci manca solo che mi stia prendendo in giro”, bussa il mio orgoglio alla porta del cuore. Ma non voglio crederlo, oggi è una bella giornata.
Parliamo, parliamo e parliamo. Tutto il pomeriggio. Cambiano le persone intorno a noi, un caffè, una cioccolata calda, un tè. Adoro il suo modo discreto di chiedermi le cose, adoro la sua curiosità nel conoscere qualcosa di me, quel qualcosa che nemmeno le persone che mi stanno più vicino vogliono conoscere. Ogni tanto mi perdo, la guardo negli occhi e poi indugio sempre sul suo sorriso, sulle sue labbra sottili e perfette. Ho la sensazione che lei abbia saputo fin da subito come sono fatto, che abbia capito il mio disagio e il mio bisogno di parlare, sfogarmi, raccontare di me e del mio essere fiero di quello che sono. E mi ascolta, è interessata a quello che ho da dire. “Chi sei tu?”, si chiede ancora il mio cuore.
E’ quasi buio, là fuori. E non ce ne siamo accorti. “Ora è meglio che vada a farmi un doccia, le va di raggiungermi dopo cena? Sono al residence “Gerbere”, mi farebbe piacere continuare la nostra chiacchierata!”, le propongo con molto coraggio – ma sono io questo? Come ho fatto? – e preparato a ricevere un rifiuto. “Va bene, però non mi devi dare più del lei, capito?”. Mi saluta, facendomi un cenno con la mano e lanciandomi un’ultima occhiata prima di uscire. Pago il conto, e rimango per un paio di minuti a guardare dalle grandi finestre dello chalet. “Che stupido che sono!”. Ma come si fa a darle ancora del lei dopo un pomeriggio così? Mi scuoto, e mi convinco che non è oro quel che luccica. Succederà sicuramente qualcosa.
Sotto la doccia fischietto come un ragazzino. Ma ho anche tremende pause, nelle quali mi faccio cadere ogni goccia d’acqua sul viso per accumulare calore e tranquillità. Mi faccio accarezzare, insomma. Riesco a non pensare a nulla, nemmeno a lei. Non ci riuscivo da tempo, che meraviglia! Metto in ordine la casa, rifaccio il letto e pulisco i piatti e le tazze della colazione. La casa è piccolissima, eppure sto notando tanti particolari che non mi piacciono e che non ho tempo di mettere a posto. Son teso, nervoso. Perché? “Non ti devi aspettar nulla, tu sei solo”, continuo a ripetermi. Non ho fame.
Mi siedo sul letto e guardo il soffitto. Cerco le parole, studio le situazioni, mi chiedo perché sei ore fa sciavo beato, e ora sono qui a vivere una situazione che ho sempre fuggito. MA non posso tornare indietro, non ho nemmeno il suo numero. Non so nemmeno chi è. Non so come si chiama. Devo solo rilassarmi, concentrarmi, e prepararmi al salto. All’ennesimo salto della giornata.
Toc Toc! Mi guardo un’ultima volta allo specchio, ho un dolcevita di lana ridicolo, ma è il migliore che mi sono portato. D’altronde sono in vancanza, no? Già…ma in questo momento maledirei i Moon Boot…
Ciao, benvenuta nella mia piccola dimora”, la accolgo. E lei, tenendo tra le mani una bottiglia di spumante, entra sorridendo, ancora una volta: “Grazie, sei molto gentile”. Si avvicina a me e mi dà due baci sulla guancia. E’ il nostro primo contatto e un brivido percorre la mia schiena. Improvvisamente vorrei abbracciarla, accarezzare i suoi capelli e sentire il suo dolcevita bianco tra le mani.
Non ho divani in casa, né poltroncine. Solo il letto, una cassapanca e un tavolo con quattro sedie. Le offro una sedia e le verso un bicchiere spumante. Lei continua a guardarmi, incuriosita. Non ho molte carte da giocare, dovremo passare due ore insieme e non so cosa fare per farla stare bene. L’unico “pretesto” che ho qui in montagna è l’album di foto scattate qualche anno fa, quando organizzai una settimana bianca con alcuni amici che ora non ci sono più. Non lo riaprivo da almeno 5 anni, quell’album. Troppo dolore. Ma ora sento che ce la farò. C’è una forza più grande del dolore, del ricordo. “Ecco, questo è un album speciale per me…ci sono alcuni ricordi molto cari”. La guardo mentre sfoglia le prime pagine. La posso ammirare come desideravo questo pomeriggio. Strana la vita, eh? Avrei potuto pensare milioni di stratagemmi per realizzare il mio obiettivo, e invece il destino…
E’ truccata leggermente, un sottile tocco di ombretto azzurro e un po’ di lucidalabbra. E’ ancora più luminosa. E bella. Non parla, ma guarda quelle foto con la stessa attenzione con cui ascoltava i miei discorsi oggi. E io dentro sto implodendo. La desidero, voglio stringerla a me, dirle tutto quello che con le parole non sono riuscito a dirle. Voglio poterla guardare negli occhi senza il timore di sbagliare. Come lo vorrei…
Ne vuoi ancora un po’?”, domando io, offrendole un altro bicchiere di spumante. “Sì, grazie”. “E’ davvero buono, complim…”. Mentre sto porgendole il bicchiere lei, concentrata sulle foto, allunga il braccio per prenderlo, ma urta il mio, e il bicchiere cade per terra. Spinto da non so quale forza, le prendo la mano e la tengo nella mia. La guardo negli occhi, e lo fa anche lei. L’imbarazzo nei suoi occhi cede il passo. Rimaniamo così per qualche secondo, uno di fianco all’altra, con le mani cinte in alto. Non percepisco più rumori, ma solo il suo profumo che si intreccia con quello della legna di pino delle travi della mia casetta. Lentamente, cediamo l’uno all’altra. Le sfioro le labbra, chiudendo gli occhi e facendomi guidare da una forza misteriosa. Sono sottili, ma morbide. Non le muove, come se volesse lasciarsi travolgere. Schiudo gli occhi qualche istante, e vedo anche i suoi, chiusi. Non sorride più, ma ha il volto del desiderio. Lascio cadere la sua mano e le accarezzo i capelli, coccolandole poi la nuca. Le cingo poi il volto con le mie mani e la porto a me, con una passione che vorrei controllare, ma che è troppo forte per poterla arrestare. Lei mi poggia le mani sul petto, mi accarezza poi le spalle e quindi la testa. Ci alziamo in piedi, come se dovessimo ballare. Ma la musica non c’è. Rimaniamo abbracciati per qualche minuto, lei tiene le mani intrecciate dietro al mio collo, io le cingo i fianchi morbidi. E sorride. Sì, sorride ancora, sfiorandomi le labbra con piccoli tocchi. “Chi sei tu?”.
Sento la sua pelle scorrere sotto le mie mani; è morbida, levigata, profumata. E’ un angelo, la donna che ho sempre desiderato. La stringo a me e diventiamo un corpo solo, un’unica entità unita dal destino. Sento la danza delicata dei suoi fianchi su di me, i suoi sospiri, i suoi baci e le sue dita che indugiano sulle mie labbra. La bacio e la sento gemere. Vengo tirato da una forza incredibile verso di lei e la bacio ancora. Bacio la sua bocca, il suo mento, il collo, i suoi occhi e, infine il suo sorriso.
Cadiamo morbidi, abbracciati. Sono felice. Siamo felici. Ci guardiamo negli occhi tutta la notte, fino a che Morfeo non ci coglie e ci porta con sé, mano nella mano.

Un brividino scuote il mio corpo e capisco che è di nuovo mattina nella mia vita. E’ buio, e un piccolo raggio di luce illumina la stanza. Allungo la mano per cercare il mio angelo. Dove sei? Mi alzo velocemente, sono nudo e fa freddo, ma quasi non me ne accorgo. E’ fuggita, non è in bagno. Perché, perché tutto questo? Dove sei, amore mio?
Mi vesto, e svogliatamente tiro su le tapparelle per far entrare un po’ di luce. Mi preparo la colazione anche se non ho fame. Mi siedo sconsolato, reggendo la testa tra le mani e chiedendomi perché. Sul tavolo c’è ancora l’album di foto. Lo prendo per farlo sparire e lo maledico perché mi ha fatto male ancora una volta. Ma mentre lo sto rimettendo via, un biglietto cade per terra. Me lo ha lasciato lei.

Chi sei tu, amore mio?
Il tuo sorriso


Chiudo l’album e tra le sue pagine bianche infilo il bigliettino. E’ il custode migliore delle mie emozioni. Preparo i bagagli, è tempo di tornare a casa. Accendo il motore dell'auto, e mi dirigo verso casa. Mi lascio alle spalle le montagne e le piccole casette di legno. Non ho pensieri e mi sento solo, ma sereno. Guardo le nuvole nel cielo, e mi sembra di scorgere il suo sorriso. E sorrido anch’io. E’ proprio una bella giornata.

giovedì, dicembre 01, 2005

Pena di morte

Una notizia oggi ha disturbato il mio equilibrio. In Isvizzera (!) tre cani pitbull hanno attaccato e sbranato un ragazzino di otto anni che si recava a scuola. Un caso come tanti, protagonisti i soliti cani “killer”. Non voglio entrare nel merito delle discussioni nate sulla base di questo fatto. Tutti hanno ragione e tutti hanno torto, fondamentalmente si esagera da una parte dell’altra e non ci si viene mai incontro (proprio come succede tra cani “bulletti” dello stesso sesso!). C’è qualcosa di più profondo, che ha disturbato ME, le mie opinioni, e soprattutto le mie sensazioni. A norma di legge, un cane che uccide una persona dovrebbe essere sottratto al padrone e, nel caso in cui una perizia stabilisca che è molto pericoloso, verrebbe soppresso.
Perché provo pena per questi cani? Perché ho la strisciante sensazione di inquietudine nell’immaginare quei tre esseri – belli o brutti, non mi interessa – poco prima di andare al patibolo, ignari di quello che gli sta succedendo? Perché la pena di morte mi sembra ancora più ingiusta, quando perpetrata sul mondo animale? E soprattutto, perché riesco a provare più pietà verso un cane che verso una persona?
Ho un cane, a cui voglio bene come ad una persona. E’ forse questo il motivo dei miei strani pensieri. Oggi ho pensato a cosa penserei se succedesse a me un fatto così, perdere cioè una persona cara per l’aggressione di un animale. Non so come mi comporterei. So che se fossi privato di quella persona da un essere umano, il dubbio di vederla o meno sparire dalla faccia della Terra sarebbe molto più flebile. Ma da un animale…non so…credo che mi sarebbe più facile perdonare.
Detto questo, mi auguro che non succeda mai. Soprattutto perché non voglio essere intervistato da Bonolis. Ma gli animali pagano colpe non loro.