L'angolo di Bertrando

Siamo solo bugie che attendono di essere svelate.

sabato, dicembre 03, 2005

Una bella giornata in montagna

Sto ancora sognando di essere sul palco di Woodstock a fare il dito medio al pubblico davanti a me, quando un piccolo brividino mi scuote tutto. Toc Toc, è il mattino che è venuto a farmi visita! La stanza buia è tagliata in due da un piccolo fascio di luce che illumina la parete alla mia sinistra. Sono nel mio letto formato matrimoniale, avvolto nel piumone e ancora un po’ stordito. Scosto un po’ la coperta e allungo la mano per pigiare l’interruttore che aziona il “motore-tira-su-tapparelle”. Frrrrrr, appena svegli è così molesto, fastidioso, ma per fortuna dura poco, mi bastano pochi centimetri per scorgere quello che c’è fuori. Mi siedo sul letto, le gambe ancora sotto le coperte, e scopro che è una splendida giornata. E’ mattino da poco, ma il sole è già luminosissimo. Il cielo azzurro cozza con il bianco delle montagne e i pini innevati lasciano intravedere ancora qualche riflesso verde. Le piste sono ancora deserte, c’è solo un bobcat che va su e giù per il manto nevoso. La strada è ancora deserta, molto probabilmente stanno tutti ancora dormendo. “Bene”, mormoro tra me e me, “dormite pure…così io mi godo le piste in solitaria!”. Decimi di entusiasmo che mi danno la forza di scendere dal letto, recarmi al fornello e mettere su l’acqua per una cioccolata calda. A dire la verità, vengo colto da un dubbio non appena metto piede a terra. “Ma chi me lo fa fare? E’ così splendido rimanere a letto, al caldo, rilassato…ho bisogno di riposo…e poi senti che freddo!”. Il dubbio non è sufficientemente forte, tanto che vado in bagno per le procedure di rito. Lavo i denti, mi sciacquo la faccia con l’acqua gelida, – adoro la sensazione di gelo che mi pietrifica la faccia e la conseguente sensazione di bollore che me la fa scoppiettare – mi sistemo i capelli tirandomi giù il ciuffetto. Sorrido, e per qualche secondo tento di improvvisare qualche sguardo da Hollywood, qualche posa da western e un balletto alla Travolta. “Mi sento proprio bene stamattina…son davvero un figo, eh? Caro specchio, da quant’è che non mi vedevi così?”. Mi piace alzarmi e sentirmi a posto con me stesso oltre ogni limite di vanitosità, perché significa che oggi sarà una bella giornata. Non mi taglio la barba, un po’ perché non ho voglia e ho fretta di uscire, un po’ perché mi fa sentire più “duro”.
La fragranza della cioccolata calda invade la piccola casa e mi fa dimenticare dei –10 gradi che ci sono fuori. Ad ogni cucchiaiata prendo vigore e comincio a pensare che sono già in ritardo, che la “mia” neve è la fuori ad aspettarmi. Ho in mente un paio di discese alternative, e oggi è il giorno giusto per farlo. Preso da un’insolita frenesia, riavvolgo totalmente le tapparelle e guardo fuori il paradiso che mi attende. Piccoli spifferi punzecchiano i miei piedi, ma il sole mi sta baciando e abbracciando, chiamandomi a sé come la più cara delle amanti.
In pochi secondi indosso la tenuta da sci e mi precipito alla macchina che mi aspetta nel garage sotterraneo. Gli sci sono ancora lì da ieri, sul portapacchi, mentre gli scarponi mi attendono nel bagagliaio. Parentesi. Adoro indossare i famosi Moon Boot. Sono così morbidi, accomodanti, sembra che ti carezzino il piede. Diventasse moda li userei anche per andare al lavoro, al posto di quelle scarpacce in simil pelle che mi tocca indossare per sembrare più importante di quello che sono. Ma oggi delle convenzioni sociali non me ne frega nulla, vamos coi Moon Boot! Le ruote, in assetto da guerra perché coperte dalle catene, scricchiolano sul manto stradale: mi sembra di guidare un cingolato, niente mi può fermare!
Dieci minuti e sono arrivato. Il paesaggio ora è un pochino più popolato, c’è qualche macchina, ma gli impianti mi sembrano ancora deserti. “Bene, ora siamo io e te…”, sussurro scendendo dalla macchina e stiracchiandomi portando le braccia verso l’alto. Inspiro profondamente e mi gusto la purezza dell’aria, assaporando il freddo che mi entra dentro e mi fa sentire vivo.
Adoro i miei sci. Li ricevetti in dono da mio padre quando avevo dodici anni. Sono ormai molto vecchi e suscitano ilarità quando i ragazzini li vedono, ma non mi interessa. Se penso alle innumerevoli discese che hanno sopportato e soprattutto al lungo periodo di pensione cui sono stati costretti una volta diventati miei, mi gaso. “Se una Carrera dell’80 è un macchina al top, perché non devono esserlo gli Spalding del ’75? Voi siete la mia Carrera, andiamo, va…”. Sci in spalla, scarponi ai piedi ma non ancora allacciati, cammino a passo svelto verso il piccolo ufficio dove comprerò lo ski-pass per la giornata. Din din, il tocco di una campanella sveglia un giovane ragazzo del posto, che mi accoglie svogliatamente. “Dica”, mi dice passandosi una matita tra le dita. Di primo acchito vorrei tirargli una castagna in faccia, ma…”Vorrei il permesso per la giornata”. “25 euro e 30 centesimi”, mi dice, inserendo la cifra nel computer e consegnandomi il tesserino. “Ecco, tieni”. Pago, prendo il tesserino e, senza salutarlo, mi reco all’uscita. “Ma signore, il resto!”. “Tienili per te, ma sorridi ogni tanto”, gli dico facendo il gesto del pollice alzato. Mi saluta con un cenno e un “ciao”. Sì, oggi è proprio una gran giornata, mi sento proprio bene!
Finalmente siamo io e la montagna, io e la neve. Faccio qualche esercizio per riscaldarmi e sento il corpo che risponde perfettamente ai miei comandi. Fantastico poi è sentire il calore che piano piano invade il tuo corpo e gli dà vigore. L’operazione di stringere gli scarponi mi ruba qualche minuto – sono molto pignolo in questo – però ora sono pronto. Mi chino e ripeto il mio solito gesto scaramantico. A mani nude, raccolgo un pugno di neve e lo annuso, bagnandomi poi le labbra. L’ho sempre fatto fin da bambino e mi ha sempre portato fortuna. Quel gesto poi mi rende un tutt’uno con l’ambiente circostante, è l’equivalente di un “permesso, posso entrare” detto quando si entra in uno spazio altrui. Sigla il mio patto di rispetto con la montagna.
Impugno con forza il piattello dello skilift e mi preparo alla risalita. E’ incredibile come ogni volta sia come la prima, come quell’insicurezza del primo tentativo non ti abbandoni mai ma, anzi, ti fa ricordare di stare attento perché tu sei già caduto, tu hai già fatto ridere tutti gli altri sciatori, tu ti sei già fatto male, in passato. Ora hai la forza di riderci sopra e di pensare a quanto fossi stato ingenuo, al tempo. Questi pensieri mi distraggono un po’, ma vengo subito riportato alla realtà dalla visione dei primi sciatori. “Qualcuno è stato più sveglio di me”, rimugino. “Ma siamo ancora pochi, possiamo gustarci le nostre discese…anzi, guarda quello lì, mica è capace!”. “Però quello fila…azz, che lippa!”. In pochi minuti sono in cima. Lascio il piattellino e mi metto in equilibrio sui miei bolidi. E’ tanto tempo che non li porto a fare un po’ di manutenzione, ma scorrono ancora bene. La prima pista è davanti a me, è la famosa “Maiala”, chiamata così perché la montagna forma una grossa conca che si conclude con un bel salto (che ricorda la forma della schiena di un maiale). Non è difficile, ma è la prima della giornata ed è la prima dopo tanto tempo. Sistemo bene gli occhiali, il cappello di lana, e con due colpi di bacchette sono in corsa.
Nelle prime fasi sbatacchio un po’ gli sci per pulirli dalla neve e per sentirli più “miei”. “Andiamo belli, si vola!”. Acquisto subito velocità, l’aria è ancora fredda e mi taglia le poche parti di viso rimaste scoperte, ma è una sensazione bellissima, perché sento che l’aria c’è, che mi permea. Nella vita di tutti i giorni non la sento, ora sì: come un pesce nell’acqua, io uomo nell’aria. Fantastico!
La neve è morbida, non c’è ghiaccio, e scendo che è un piacere. Voglio farla a tutta, zigzagando continuamente come piace a me; le traiettorie ampie e il panorama me li gusterò più tardi, al tramonto. Sento le fibre dei muscoli che lavorano una ad una - non so perché ma penso ai marinai di una trireme che all’unisono lambiscono l’acqua coi remi – il cuore che batte a velocità costante, il sangue che mi scorre fluido nel corpo. Sto dando il massimo, ma non sento la fatica. Sto volando, ma non ho paura. Mi preparo al salto. Mi accuccio, piegando le gambe, e stendo i bastoncini paralleli alla mia schiena bloccandoli sotto le ascelle. Cerco lo stile perfetto, ma nessuno me l’ha mai insegnato: sarei curioso di rivedermi alla tv, potrei scoprire che quello che io penso di fare con stile in realtà sia un pernacchione all’estetica sciistica. Ma tant’è, ora non c’è tempo di pensare, c’è da stare concentrati! Con tutta la forza che ho nel corpo spingo verso l’alto, le ginocchia scricchiolano ma si comportano da bravi argani e mi fanno spiccare un volo che a me sembra immenso, divino. Perdo il contatto col terreno: volo! Pochi secondi, bastano pochi secondi, e sono felice. Sembra che tutto scorra al rallentatore, che il paesaggio intorno si sia fermato, immobile e silenzioso. “Diavolo, mi sento unico! Che fottuta sensazione di divinità!”.
Pochi secondi, e la prima discesa è finita. Due, tre, quattro volte ancora. Poi cambio e vado all’”Imbuto”, pista che parte larga e non troppo pendente, ma che negli ultimi metri si restringe dentro due costoni di montagna. E la pendenza diventa terrificante. Da piccolo avevo il terrore anche solo a vederla, ora no, non oggi che mi sento bene. Altri due sciatori stanno scendendo indecisi. “Sei mia”. Mi accuccio a uovo, per prendere più velocità e anche per far vedere ai due “amici” che IO sono capace di sciare, che so dominare l’Imbuto. Ne supero uno, che mi guarda attonito. Il secondo mi urla qualcosa che non capisco, perchè fondamentalmente non mi interessa. Ormai sono velocissimo, sento le gambe un po’ rigide, ma ancora sotto controllo. Gli sci scorrono veloci, mi sembra di essere sulla biga di Ben Hur. Ho caldo e sono concentrato, tanto che di nuovo non sento l’aria gelida che mi taglia la faccia. La strettoia è a 100 metri da me ormai, in pochi secondi dovrò infilarmi lì dentro senza paura. So che troverò del ghiaccio nella parte in ombra. Mi sento furbo, sveglio, dominatore della situazione. Sicuro, come mai in vita mia. E infatti sbaglio.
Comincio a scompormi, non riesco a controllare gli sci. Il terreno sotto di me si è fatto scostante, una texture di cunette e ghiaccio. Lo sci di destra si comporta in un modo e, una volta che l’ho dominato, lo sci di sinistra cade nella trappola di un’altra cunetta. La velocità è folle, e rischio di perdere il controllo. Le punte degli sci sbacchettano, cerco di non farle sovrapporre ma non ci riesco. L’unica soluzione è rallentare, ma non posso farlo, sono a 10 metri dall’imbuto! Improvvisamente lo sci di destra si pianta, e la gamba con lui. Una fitta all’inguine mi avvisa che è finita, che ho perso la sfida. Mi lascio cadere in modo da ricompattarmi al suolo, entrambi gli sci si staccano, così come uno dei due bastoncini. Sono lucido ma non riesco a capire quello che mi succede intorno. Continuo a rotolare, senza perdere velocità. Vorrei controllare le braccia per non farle sbattere, ma sono impotente, un burattino. Ogni cunetta è un pugno e la neve è uno spillone nel mio collo. Penso a quando finirà tutto, dopotutto mi convinco che siano solo pochi secondi, poi tutto passerà. Penso anche alla traiettoria che ho preso e cerco di capire se finirò nell’imbuto o se uno dei due costoni sarà la mia dimora eterna. Urlo, una fitta terribile a metà schiena. La testa viene trascinata all’indietro, ho quasi paura di perderla tanto la botta è forte. Ma ora sono fermo, non so come ma mi sono fermato. Della neve continua a cadermi addosso in grandi blocchi, anche sulla faccia ormai bollente. Rimango sdraiato così, su un fianco, per qualche secondo. Non sto provando dolore, non devo essermi rotto nulla. “Certo che è terribile rimanere lucidi…e non capire che fine farai”.
Provo a tirarmi su, ma ecco di nuovo la fitta alla schiena. Non è un dolore atroce, ma mi rende goffo e incapace di riprendere subito il controllo dei miei arti. Riesco a mettermi seduto, poggiandomi sulle braccia stese all’indietro. Intravedo i miei sci a pochi metri da me, ma non la bacchetta. Ho perso anche gli occhiali, tanto che il sole mi brucia gli occhi e faccio fatica a tenerli aperti.
“Certo che poteva andare più piano…si è fatto male? E’ pazzo a scendere a quella velocità, è l’Imbuto!”, una voce mi rivolge queste parole da qualche punto imprecisato alle mie spalle. Mi giro, e vedo una tuta rossa, che mi sembra di aver già visto. Ma sì, è uno dei due incapaci che ho superato prima! “Che cavolo vuole da me?”, penso. Ma dico: “ah, niente, sciocchezze, non mi son fatto nulla, mi è già successo altre volte…ormai l’Imbuto per me è una sfida…sempre più veloce…sa, adoro superare i miei limiti!”. Mi sento uno sfigato, ma parlando così mi sembra di essere un figo. Almeno oggi. “Poteva farsi male, molto male, lo sa?”, aggiunge la voce in avvicinamento. Non ho voglia di voltarmi, ma non ce n’è bisogno: finalmente riesco ad aprire gli occhi, una figura umana copre il sole così molesto. “Ecco, questa deve essere sua”, dice, mostrandomi la bacchetta. Il mio interlocutore si toglie gli occhiali, e poi il cappello. Meraviglia, stupore, incredulità. Intravedo lunghi capelli lisci che si librano morbidamente prima di poggiarsi sulle spalle, occhi così chiari che quasi feriscono i miei per la loro brillantezza, una pelle chiara, che si arrossisce appena sulle gote di un viso dai lineamenti morbidi e delicati. E un sorriso candido, solare, come pochi ne ho visti nella vita. E’ un donna. Una bellissima donna.
Grazie davvero”, dico io, cercando di tirarmi su in piedi. La schiena mi fa malissimo, proprio ora non posso dimostrarmi debole. “Le fa male?”, mi dice. “Scusi?”, rispondo. “LA schiena…mi sembra che le faccia male…”, dice indicando la mia mano che tocca un fianco. Mi ha scoperto. “Ma no, si figuri…cosa vuole che sia…meglio una botta così che una settimana in ufficio!”, provo la battuta, cercando di essere simpatico. Quel sorriso mi ha steso. Lo voglio rivedere. Pochi secondi, e lei sorride. Come potrò farne a meno ora? Perché sento quell’irrefrenabile desiderio di baciarlo, quel sorriso? Dopotutto, mi dico, devo lasciar perdere, son venuto qui per sciare, per stare tranquillo, per dimenticare tutto. E sto così bene, con la neve, le discese, no, non è possibile, ho preso solo una grossa botta. Mi devo riprendere! Non mi manca niente, posso fare a meno anche di quel sorriso. Cosa vuoi che sia un sorriso…
“E’ solo, qui?”, mi chiede mentre mi sto togliendo la neve che ho ormai in ogni dove. “Sì…una piccola vacanza…sa…ogni tanto ci vuole!”, rispondo abbastanza impacciato. La bocca non segue la testa, la testa è troppo lenta per costruire un discorso intelligente. “Io sto andando allo chalet a mangiare qualcosa, le va di farmi compagnia?”. Trasalisco. “Ma no, si figuri…”, anche se seguirla è la cosa che più desidero al mondo in questo momento. “Allora arrivederci, e mi raccomando vada più piano la prossima volta!”, mi dice inforcando gli occhiali e ri-indossando il cappello senza però raccogliere i capelli. Si volta, e se ne va. Le vene mi bollono, la seguo con lo sguardo e apprezzo la sua sciata insicura, ma morbida ed per certi versi elegante. Scivola sulla neve, leggera, come se non volesse farle male. “Chi sei tu?”. Scuoto la testa, e ciondolando riprendo gli sci. Intorno ormai la pista si è riempita, grandi e piccoli scorrazzano su e giù. Qualcuno è caduto, altri stanno facendo lo slalom tra gli altri sciatori. Ma mi sembra di essere in una bolla. Non sono più lì. “Ah, svegliati!”, urlo a me stesso picchiettandomi la tempia col palmo della mano. Riprendo a sciare molto lentamente, guardandomi intorno e controllando ogni scricchiolio delle mie incidentate membra. “Per la mattinata è tutto”.
Sono le 2 del pomeriggio, e mi vien fame. Soprattutto, cerco un posto caldo dove potermi sedere e riposare un poco. Penso all’incidente che ho appena subito, e mi chiedo come abbia fatto a non farmi nulla. “E’ proprio una bella giornata”, penso, sorridendo davanti al menu. Non bado a spese, oggi mi sfondo. Gusto ogni forchettata, ogni morso, sento il calore del cibo che mi entra dentro e mi pervade benefico. Intorno a me tavolate di gente rumorosa fanno a gara a chi la racconta più grossa, alcune mamme cercano di tenere a bada i figli che vogliono uscire da soli a sciare, mentre i papà sono al telefonino con il volto scuro. Ci sono poi delle signorotte sulla cinquantina che giocano a carte e ogni tanto gettano qualche sguardo su di me e ridono come ochette. “Tanto ne avete ancora per poco”, sogghigno.
Ah, che dolore”. LA schiena mi si infiamma di nuovo, ancora lì, in quel punto. Ma non è la botta, è un dolore più intenso. E soprattutto non capisco da dove arrivi. “Mi scusi signore, davvero, non volevo...sono inciampata”. Una ragazza cicciotella, fasciata da un grembiule nero, è china sul pavimento e con dei fazzoletti cerca di tamponare qualcosa. E’ visibilmente imbarazzata, arrossisce, continua a chiedermi scusa. Capisco tutto. “Non ti preoccupare, son cose che capitano”, le dico dandole una pacca sulle spalle. Le prenderà dal suo capo, almeno io le risparmierò la ramanzina. Dopotutto non è colpa sua, se quel giangi dietro di me non avesse portato dentro i suoi sci in carbonio spaziale… Non ero nemmeno troppo irritato, nonostante avessi appena ricevuto sulla mia schiena l’intero contenuto di una teiera bollente.
“Certo che oggi è la sua giornata fortunata!”. Alzo gli occhi, e di nuovo quel sorriso. “Eh già! Però…è lo stesso una bella giornata!”, dico io, visibilmente imbarazzato. Tremendamente imbarazzato. Non so cosa dire, perché non c’è niente da dire. Vorrei poterla guardare senza che lei mi scorga, poter mirare i suoi capelli morbidi, ora legati in due code, apprezzare l’eleganza che trasuda anche da un’abbigliamento troppo grande e goffo, che non rende giustizia al suo fisico snello e sportivo. Proprio come quando volavo sul salto della Maiala, il tempo si ferma, pochi attimi si trasformano in secondi interminabili, belli. Si siede davanti a me. Rispetto a me è molto più rilassata. E’ allegra, e continua a fissarmi e a ridere, come se scorgesse in me qualcosa di buffo e di divertente. “Ci manca solo che mi stia prendendo in giro”, bussa il mio orgoglio alla porta del cuore. Ma non voglio crederlo, oggi è una bella giornata.
Parliamo, parliamo e parliamo. Tutto il pomeriggio. Cambiano le persone intorno a noi, un caffè, una cioccolata calda, un tè. Adoro il suo modo discreto di chiedermi le cose, adoro la sua curiosità nel conoscere qualcosa di me, quel qualcosa che nemmeno le persone che mi stanno più vicino vogliono conoscere. Ogni tanto mi perdo, la guardo negli occhi e poi indugio sempre sul suo sorriso, sulle sue labbra sottili e perfette. Ho la sensazione che lei abbia saputo fin da subito come sono fatto, che abbia capito il mio disagio e il mio bisogno di parlare, sfogarmi, raccontare di me e del mio essere fiero di quello che sono. E mi ascolta, è interessata a quello che ho da dire. “Chi sei tu?”, si chiede ancora il mio cuore.
E’ quasi buio, là fuori. E non ce ne siamo accorti. “Ora è meglio che vada a farmi un doccia, le va di raggiungermi dopo cena? Sono al residence “Gerbere”, mi farebbe piacere continuare la nostra chiacchierata!”, le propongo con molto coraggio – ma sono io questo? Come ho fatto? – e preparato a ricevere un rifiuto. “Va bene, però non mi devi dare più del lei, capito?”. Mi saluta, facendomi un cenno con la mano e lanciandomi un’ultima occhiata prima di uscire. Pago il conto, e rimango per un paio di minuti a guardare dalle grandi finestre dello chalet. “Che stupido che sono!”. Ma come si fa a darle ancora del lei dopo un pomeriggio così? Mi scuoto, e mi convinco che non è oro quel che luccica. Succederà sicuramente qualcosa.
Sotto la doccia fischietto come un ragazzino. Ma ho anche tremende pause, nelle quali mi faccio cadere ogni goccia d’acqua sul viso per accumulare calore e tranquillità. Mi faccio accarezzare, insomma. Riesco a non pensare a nulla, nemmeno a lei. Non ci riuscivo da tempo, che meraviglia! Metto in ordine la casa, rifaccio il letto e pulisco i piatti e le tazze della colazione. La casa è piccolissima, eppure sto notando tanti particolari che non mi piacciono e che non ho tempo di mettere a posto. Son teso, nervoso. Perché? “Non ti devi aspettar nulla, tu sei solo”, continuo a ripetermi. Non ho fame.
Mi siedo sul letto e guardo il soffitto. Cerco le parole, studio le situazioni, mi chiedo perché sei ore fa sciavo beato, e ora sono qui a vivere una situazione che ho sempre fuggito. MA non posso tornare indietro, non ho nemmeno il suo numero. Non so nemmeno chi è. Non so come si chiama. Devo solo rilassarmi, concentrarmi, e prepararmi al salto. All’ennesimo salto della giornata.
Toc Toc! Mi guardo un’ultima volta allo specchio, ho un dolcevita di lana ridicolo, ma è il migliore che mi sono portato. D’altronde sono in vancanza, no? Già…ma in questo momento maledirei i Moon Boot…
Ciao, benvenuta nella mia piccola dimora”, la accolgo. E lei, tenendo tra le mani una bottiglia di spumante, entra sorridendo, ancora una volta: “Grazie, sei molto gentile”. Si avvicina a me e mi dà due baci sulla guancia. E’ il nostro primo contatto e un brivido percorre la mia schiena. Improvvisamente vorrei abbracciarla, accarezzare i suoi capelli e sentire il suo dolcevita bianco tra le mani.
Non ho divani in casa, né poltroncine. Solo il letto, una cassapanca e un tavolo con quattro sedie. Le offro una sedia e le verso un bicchiere spumante. Lei continua a guardarmi, incuriosita. Non ho molte carte da giocare, dovremo passare due ore insieme e non so cosa fare per farla stare bene. L’unico “pretesto” che ho qui in montagna è l’album di foto scattate qualche anno fa, quando organizzai una settimana bianca con alcuni amici che ora non ci sono più. Non lo riaprivo da almeno 5 anni, quell’album. Troppo dolore. Ma ora sento che ce la farò. C’è una forza più grande del dolore, del ricordo. “Ecco, questo è un album speciale per me…ci sono alcuni ricordi molto cari”. La guardo mentre sfoglia le prime pagine. La posso ammirare come desideravo questo pomeriggio. Strana la vita, eh? Avrei potuto pensare milioni di stratagemmi per realizzare il mio obiettivo, e invece il destino…
E’ truccata leggermente, un sottile tocco di ombretto azzurro e un po’ di lucidalabbra. E’ ancora più luminosa. E bella. Non parla, ma guarda quelle foto con la stessa attenzione con cui ascoltava i miei discorsi oggi. E io dentro sto implodendo. La desidero, voglio stringerla a me, dirle tutto quello che con le parole non sono riuscito a dirle. Voglio poterla guardare negli occhi senza il timore di sbagliare. Come lo vorrei…
Ne vuoi ancora un po’?”, domando io, offrendole un altro bicchiere di spumante. “Sì, grazie”. “E’ davvero buono, complim…”. Mentre sto porgendole il bicchiere lei, concentrata sulle foto, allunga il braccio per prenderlo, ma urta il mio, e il bicchiere cade per terra. Spinto da non so quale forza, le prendo la mano e la tengo nella mia. La guardo negli occhi, e lo fa anche lei. L’imbarazzo nei suoi occhi cede il passo. Rimaniamo così per qualche secondo, uno di fianco all’altra, con le mani cinte in alto. Non percepisco più rumori, ma solo il suo profumo che si intreccia con quello della legna di pino delle travi della mia casetta. Lentamente, cediamo l’uno all’altra. Le sfioro le labbra, chiudendo gli occhi e facendomi guidare da una forza misteriosa. Sono sottili, ma morbide. Non le muove, come se volesse lasciarsi travolgere. Schiudo gli occhi qualche istante, e vedo anche i suoi, chiusi. Non sorride più, ma ha il volto del desiderio. Lascio cadere la sua mano e le accarezzo i capelli, coccolandole poi la nuca. Le cingo poi il volto con le mie mani e la porto a me, con una passione che vorrei controllare, ma che è troppo forte per poterla arrestare. Lei mi poggia le mani sul petto, mi accarezza poi le spalle e quindi la testa. Ci alziamo in piedi, come se dovessimo ballare. Ma la musica non c’è. Rimaniamo abbracciati per qualche minuto, lei tiene le mani intrecciate dietro al mio collo, io le cingo i fianchi morbidi. E sorride. Sì, sorride ancora, sfiorandomi le labbra con piccoli tocchi. “Chi sei tu?”.
Sento la sua pelle scorrere sotto le mie mani; è morbida, levigata, profumata. E’ un angelo, la donna che ho sempre desiderato. La stringo a me e diventiamo un corpo solo, un’unica entità unita dal destino. Sento la danza delicata dei suoi fianchi su di me, i suoi sospiri, i suoi baci e le sue dita che indugiano sulle mie labbra. La bacio e la sento gemere. Vengo tirato da una forza incredibile verso di lei e la bacio ancora. Bacio la sua bocca, il suo mento, il collo, i suoi occhi e, infine il suo sorriso.
Cadiamo morbidi, abbracciati. Sono felice. Siamo felici. Ci guardiamo negli occhi tutta la notte, fino a che Morfeo non ci coglie e ci porta con sé, mano nella mano.

Un brividino scuote il mio corpo e capisco che è di nuovo mattina nella mia vita. E’ buio, e un piccolo raggio di luce illumina la stanza. Allungo la mano per cercare il mio angelo. Dove sei? Mi alzo velocemente, sono nudo e fa freddo, ma quasi non me ne accorgo. E’ fuggita, non è in bagno. Perché, perché tutto questo? Dove sei, amore mio?
Mi vesto, e svogliatamente tiro su le tapparelle per far entrare un po’ di luce. Mi preparo la colazione anche se non ho fame. Mi siedo sconsolato, reggendo la testa tra le mani e chiedendomi perché. Sul tavolo c’è ancora l’album di foto. Lo prendo per farlo sparire e lo maledico perché mi ha fatto male ancora una volta. Ma mentre lo sto rimettendo via, un biglietto cade per terra. Me lo ha lasciato lei.

Chi sei tu, amore mio?
Il tuo sorriso


Chiudo l’album e tra le sue pagine bianche infilo il bigliettino. E’ il custode migliore delle mie emozioni. Preparo i bagagli, è tempo di tornare a casa. Accendo il motore dell'auto, e mi dirigo verso casa. Mi lascio alle spalle le montagne e le piccole casette di legno. Non ho pensieri e mi sento solo, ma sereno. Guardo le nuvole nel cielo, e mi sembra di scorgere il suo sorriso. E sorrido anch’io. E’ proprio una bella giornata.

4 Comments:

Anonymous Anonimo said...

Oh so', chi sei tu?eh eh eh....no, seriamente, questo racconto, seppur poco credibile é molto bello, scritto molto bene, compliments!

p.s:il pensiero sulle vecchie ci sta troppo dentro!;)

12/03/2005 11:36 AM  
Blogger Bertrando da Nolle said...

Più che poco credibile, io direi IMPOSSIBILE PLAUSIBILE...

Come tutto, del resto...

12/03/2005 2:05 PM  
Anonymous Anonimo said...

Sono arrivato in fondo..Complimenti!!
Mi spiace solo che se andremo a sciare, troverai me ad aiutarti nelle tue cadute..O se vuoi ti lascio a terra e vediamo chi arriva in soccorso!!

Molto bravo Paolino!

12/04/2005 12:25 PM  
Anonymous Anonimo said...

P.S.=Aggiungo una breve storia realmente accaduta: (circa 30 anni fa)mia mamma era a sciare in montagna in Valsassina con una sua amica di infanzia, che, alla vista di un bel ragazzo, ha detto a mia mamma di fingere una caduta per farsi soccorrere.
Conclusione: Questi due si sono conosciuti, sposati, io sono amico delle loro figlie e i nostri genitori si vedono ancora.

Ci sono delle volte in cui "mai dire Mai"..

Avv.Anonimo

12/04/2005 12:30 PM  

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