L'angolo di Bertrando

Siamo solo bugie che attendono di essere svelate.

giovedì, novembre 24, 2005

Fogliolacrime

Apro un occhio, poi l’altro. Nella stanza è buio ma sento che là fuori la vita ha ricominciato a scorrere da un po’. Il letto mi stringe ancora nel suo ipocrita abbraccio; è così morbido, accogliente, caldo, che per un momento dimentico che è soprattutto la mia prigione. Oggi ho un pochino più di vitalità rispetto agli altri giorni, il mio debole fisico segue con più coraggio i dettami di una testa ancora viva. Tento di alzarmi e con gran fatica riesco a sedermi. Tutt’intorno è ancora buio ma quasi non me ne accorgo: conosco al millimetro la mia stanza, la mia casa, il mio mondo. Allungo la mano destra verso la parete su cui poggia la testa del letto ed afferro il nastro – mi stupisco ancora di quanto sia meccanico questo gesto, quasi inconsapevole, senza dubbio abitudinario, robotico – che mi permette di far scorrere verso l’alto la tapparella. Sfrutto la sua resistenza per mettermi in piedi ed al primo tentativo ce la faccio. Sono stupito perché è raro che ci riesca: so già che lo pagherò in seguito. Con le poche forze che ho a disposizione e con quel poco di peso che mi rimane faccio entrare un po’ di luce nella mia stanza. Prima pochi raggi, poi sempre di più, fino ad un fascio completo che proietta la mia ombra sul muro dietro di me. Per qualche secondo mi faccio investire dalla luce e ne assaporo la sua luminosità. Il calore è filtrato da quel maledetto vetro, ipocrita anch’esso, che mi permette di vedere ma non di sentire. Poggio tutto il mio peso sul termosifone che ho davanti.
Il calendario segna metà novembre, ma sembra di essere in una di quelle bellissime giornate di fine dicembre. Il cielo è terso, azzurro come quello che ogni bambino sogna di solcare da piccolo. Poche timide e piccole nuvole tentano di solcare quell’azzurro, ma oggi per loro non c’è spazio. Deve fare molto freddo, e deve esserci sicuramente un leggera brezza tagliente. Tutte ipotesi perché quel freddo, che una volta non sopportavo e fuggivo, io non posso sentirlo. Non posso più affrontarlo, sentirlo addosso a me. E mi rendo conto solo ora che in realtà mi faceva sentire vivo, umano, un essere nudo alla continua ricerca di protezione. Vorrei tanto sentirlo, il freddo portato dal suo messaggero vento, ma mi devo accontentare di quello che ho, di una costante temperatura gestita da un computerino.
Abito in una piccola via in periferia, lontano dal caos del centro cittadino e la mia casa è una delle tante piccole villette a schiera che ornano i confini della città. Le villette, che come la mia sorgono su questo lato di strada, sono tutte uguali. Davanti a me si immette un’altra strada, leggermente spostata sulla destra; anch’essa filo d’Arianna per altre villette, tutte diverse, più grandi, boriose, ma con piccoli giardini. Mi sembra di vivere in un acquario, perché vedo ciò che c’è fuori ma non riesco a percepire i rumori. Tutto oggi sembra di cristallo, troppo immobile per essere vivo.
E’ tutto troppo preciso, là fuori. Domina l’angolo. Le case, la strada, le strisce disegnate sul cemento: non c’è alcuna curva, ma solo fredde linee. Il cemento sembra un tatuaggio disegnato su una pelle delicata, è di troppo. Tutto troppo dritto, perfetto. Per fortuna ci sono gli alberi, unica forma che interrompe la monotonia. Anche loro hanno subìto la legge dell’uomo, sono stati piantati millimetricamente lungo il marciapiede uno dopo l’altro. Ma come discoli che disobbediscono alla mamma, spruzzano il loro getto di vita verso l’alto e chiedono spazio all’amico cielo. Ognuno diverso dall’altro, con fronde più o meno lunghe, più o meno cadenti. Tutti però hanno i rami coperti da foglie giallissime, tanto gialle da sembrare dipinte una ad una con la vernice, come su un quadro. Spaesante è la sensazione di un colore così naturale da sembrare innaturale, altro rispetto al grigiore del contesto in cui è immerso. Gli alberi stanno piangendo, sentono l’avvicinarsi dell’inverno e la fine dell’esuberanza estiva. Le loro foglie, che si staccano dai rametti, sembrano davvero lacrime che dolcemente vibrano nell’aria e poi si poggiano sull’inospitale cemento. Quelle che restano sembrano cercare di resistere alla leggera brezza che cerca di portarle via, pur sapendo di non potercela fare ancora per molto. Il contrasto tra l’azzurro del cielo e il giallo delle foglie è meraviglioso, la luce riflessa dalla loro superficie scalda gli occhi. E si intravedono ora le rigide forme delle case davanti, coperte dagli amici alberi per quasi tre stagioni. E se avessero fatto tutto questo per me? Per noi? Per occultare le nostre brutture così necessarie per la nostra sopravvivenza?
Sulla destra qualcosa attira la mia attenzione. E’ il ragazzetto che abita nella casa di fianco alla mia; avrà 14-15 anni, capelli ricci rossi e viso molto chiaro su cui sono impresse poche lentiggini. Saluta la madre svogliatamente, e sbatte il cancelletto dietro di sé. Ha il volto stanco, annoiato, di chi va a fare qualcosa che gli è stato imposto e una camminata ciondolante resa ancora più evidente dai pantaloni troppo grandi e dalle punte dei piedi rivolte verso l’interno. Si trascina sorreggendo il peso di uno zaino azzurro più grande di lui e impugnando una cartelletta di plastica gialla. Tum, tum, tum, tum: andatura lenta e ritmicamente perfetta nella sua imperfezione stilistica. Scalcia. Le foglie davanti a lui sembrano spostarsi prima ancora di ricevere il forte colpo e il grigio cemento sembra farsi spazio di nuovo, creando un piccolo sentiero. NON FARLO! NO! NON PUOI CALPESTARE LE LACRIME! Urlo, tento di farlo, ma non mi può sentire. Non mi sentirebbe nemmeno se fossi ad un metro da lui. Non lo farebbe con cattiveria, non capirebbe. Come non capisce di essere fortunato, di avere quello che io non ho. Ecco però che un filo di vento riempie l’aria di altre lacrime gialle che inesorabili si posano sul freddo cemento, proprio dove sono state da poco spodestate le loro sorelle. Mi cheto e guardo con ammirazione lo spettacolo della Natura, che perdona, che ricuce l’involontaria cicatrice provocata dall’uomo, che ricopre parte di ciò che ha creato l’uomo per renderlo più bello per ridargli l’illusione di vivere ancora in un mondo e non in una gabbia. So che non durerà ancora molto e che sono fortunato ad assistere a questo rito. Fra qualche giorno gli alberi non piangeranno più e tranquilli si prepareranno al riposo invernale. Forse è per questo che gli animali vanno in letargo: non per il freddo, ma perché non ci sono più i colori, gli odori, perché non è possibile vivere in un mondo grigio.
Sono passati solo pochi minuti, ma sento già la fatica che abbraccia il mio corpo. Devo abbandonare subito quella finestra, la vita là fuori, altrimenti rischio di cedere presto alla malattia. Devo tornare nella mia prigione. Fuori gli alberi piangono ancora, e il cielo terso sembra accompagnare le loro lacrime. Un piccolo movimento attira ancora la mia attenzione: sotto la mia finestra un cane nero ciondola sul marciapiede. Le sue zampe però non spostano le foglie, ma vi si poggiano sopra dolcemente. Si ferma, come se mi percepisse. E mi guarda, triste. Vorrebbe essere al mio posto ma sa che non può; e io vorrei essere lì, al posto suo, a piedi nudi su quel cuscino di lacrime. Sappiamo entrambi che il nostro destino è già scritto, ed è questa la condizione che ci spetta. Non ci resta che viverla al meglio sapendo che quel giorno non avremo rimpianti.
Lascio un ultimo sguardo a questo scorcio di paradiso: ora è davvero tutto fermo, cristallizzato. Cado pesantemente sul letto, che mi accoglie di nuovo nel suo ipocrita abbraccio. E mi sento una di quelle piccole foglioline, una dolce lacrima che si poggia sul freddo cemento.

8 Comments:

Anonymous Anonimo said...

Oggi sarò bravo..e dico solo che scrivi veramente bene!

Poi mi dirai il senso di questa storia applicato alla realtà..

Avv.Anonimo

11/25/2005 9:24 AM  
Blogger Bertrando da Nolle said...

Non devi per forza cercare un senso, quando tutto nasce da una sensazione.

E' uno stato d'animo che ha preso corpo sullo schermo; ciò che significa, o il senso che gli voglio dare, non è importante.

Anzi, prova tu a dare un senso al testo sulla base della tua interiorità. Ti renderai conto che non sempre si deve leggere tra le righe...ogni tanto le righe vanno vissute da sè...

Potrai avere 100, come avere 1, l'importante è averci provato!

11/25/2005 10:44 AM  
Anonymous Anonimo said...

Molto bello questo racconto che intitolerei "vista dal cesso di casa mia" perché quello che tu hai scritto é piu' o meno quello che io faccio e vedo ogni mattina quando mi sveglio...

(anche se i miei pensieri nn sono
"profondi" come i tuoi...sopratutto di mattina, appena sveglio!;))

11/25/2005 12:31 PM  
Anonymous Anonimo said...

vittime, siamo vittime di tutto questo.
ma essere carnefici sarebbe ancora peggio.

11/25/2005 12:32 PM  
Anonymous Anonimo said...

Ma solo io voglio trovare un senso agli avvenimenti della vita??

Avv.Anonimo

11/25/2005 6:33 PM  
Blogger Bertrando da Nolle said...

Certo che sei forte! Mi dici di non farmi domande e passare ai fatti e poi ti chiedi se sei il solo a cercare un senso alle cose?!?!

Mi sa che sei un po' confuso! ;)

Tutto ha un senso. Il testo ha un MIO senso, che può essere condiviso da te o da chi altro. Ma può avere ALTRI sensi, condivisi da altre persone.

Ecco, diciamo così: vi sono rappresentati dei FATTI a cui ognuno deve dare un SENSO tramite DOMANDE e RISPOSTE.

E se il senso non ci fosse? Se fosse un puro gioco estetico-linguistico? O semplicemente un throw-up di un sentimento-sensazione materializzatosi in una rappresentazione?

Eh eh, mistero!

;)

CMq grazie a tutti, tenete vivo il blog!

11/25/2005 7:17 PM  
Anonymous Anonimo said...

Va la', va la', throw up...

11/26/2005 5:20 PM  
Blogger Bertrando da Nolle said...

Throw up, il cugino di blow job, no?

;)

11/26/2005 6:45 PM  

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