L'angolo di Bertrando

Siamo solo bugie che attendono di essere svelate.

mercoledì, novembre 30, 2005

Svevo

Si vive tra le cose che non sono a posto, ma come se lo fossero; come se non esistesse la grande solitudine che ci separa da tutti, anche da chi ci è vicino e ci cammina accanto, su un sentiero sì vicinissimo ma parallelo, che, come ci insegna la geometria, si incontrerà col nostro ma solo all'infinito, quando e dove noi non ci saremo.

Italo Svevo

martedì, novembre 29, 2005

Ipocrisia

Stamattina ho comprato, come al solito, Gazzetta dello Sport e Corriere della Sera. Dopo averli letti ho deciso di soffermarmi ancora sul "caso Zoro". Prenderò in considerazione solo la “Gazza”, perché questo è un fatto di sport – voglio che sia così – e soprattutto perché basta e avanza…
La copia di oggi è esilarante, un concentrato di buonismo, moralismo e di tutto ciò che trasforma un fatto in pecunia sonante. Ci stanno campando tutti, come prevedibile. Giocatori, allenatori, amministratori delegati, presidenti, media. Il risultato? Questo.
Comincia lo stesso Zoro, che scrive una lettera e spiega di nuovo le sue motivazioni: “l’Italia è un bellissimo Paese, vorrei vivere qui il futuro con la mia famiglia”. Ma aggiunge: “A Milano sono entrato in un negozio e mi son sentito discriminato”. L'avevano infatti scambiato per un fattorino della DHL... Da buona mamma comprensiva, la Gazzetta affianca alla sua lettera quella di un compunto Obafemi Martins che esordisce dicendo: “Non sono Dio”. Hai voglia! Meno male! Ci chiediamo poi chi può aver scritto la lettera, molto probabilmente lo stesso programma di computer o lo stesso spin doctor (semplificando, responsabile delle comunicazioni). Le solite cose: Italia bel Paese, italiani rispettosi, l’unica soluzione è dare il buon esempio e giocare. Lo zenith viene raggiunto però con questa frase: “Con Adriano abbiamo fatto capire a quella gente che urlava – era poca (ma dove Oba Oba???? Per favore!) – di smettere. Abbiamo abbracciato Zoro, certe volte un abbraccio può fare molto”. Punti di vista, senza dubbio Einstein aveva ragione. Però non prenderci in giro così, caro Oba Oba. Se quelli sono abbracci, la prossima volta che stringerò una donzella tra le mie braccia mi metterò il paradenti e, senza dubbio, un capo di scarsa qualità: me lo sfilaccerebbe tutto! Mi dicono, tra l’altro, che l’ultima frase citata sia stata scritta da Michael Reale, il Raoul Monteleone della soap Vivere, in collaborazione con Alessandro Greco, appena eliminato da La Talpa. Nella versione originale si dice ci fosse anche scritto: "Mark Andrè ti amo, ti amo, ti amo", ma la chiosa non è piaciuta a Cannavò che ha denunciato Greco per avergli copiato la frase da uno dei suoi vendutissimi libri.
In quanto a punti di vista, ci pensano il giocatore Di Canio e l'allenatore Silvio Baldini a riportare in parità la situazione. Dice il “re d’aa Lazio”: “non sono questi i problemi, quando ero all’estero mi davano del bastardo, ma questa offesa non mi ha mai intaccato”. Si dice indossasse un pastrano antiproiettile da gerarca fascista sotto la divisa della squadra. E il Baldini: “In Africa il razzismo dei neri nei confronti dei bianchi è anche peggiore”. Chissà come mai, ma il suo cane si chiama Taglione…
Sulla falsariga degli allenatori, ci va giù duro Ancel(l)otti, che dice: “L’unica cosa che Zoro ha sbagliato a fare, è stata non uscire veramente dal campo”. E rincara la dose: “Io la partita l’avrei sospesa”. Carlè, non dire così, dai! Vuoi dare un’altra delusione ai tuoi cuginastri? Già sono ad un’infinità di punti dalla vetta…ma non è che anche te sei cascato nella trappola? Non è che stai sfruttando questo “caso” per fare un po’ di casino e magari destabilizzare un ambiente che ha già i suoi problemi con Materazzi, Mihaijlovic (che sul problema non si è esposto, sembra abbia mandato dei sicari sotto casa di Zoro, neutralizzati però dalla gang del presidente Franza) e Veron? E’ squalliduccio, non credi? CI pensa il c.t. Lippi a dire una cosa profonda, vera, utile, e soprattutto innovativa: “Meglio parlarne tra i giovani”. Ma va?
Autentico wrestling tra due storiche figure del calcio, Luciano “LuckyLuciano” Moggi e Massimo “V-Power” Moratti. Moggi: “puniteli per Zoro”. E Moratti: “Lui sa cos’è immorale (riferendosi al caso doping che coinvolge le Juve, ndr.)”. I due contendenti sono confermati alla prossima puntata di Smackdown, dove faranno coppia con John Cena e The Undertaker.
Passiamo ai piani alti. Idea incredibile di Campana: “Zoro nel Consiglio AIC”. Eh sì, proprio una gran soluzione! Un po’ come per il Fantozzi comunista indefesso che viene portato a scoprire le meraviglie del proprio capo supremo…Ed è un po’ come dirgli: “Dai Mark, ti fischiano un po’ ma ora sei un paladino!”. Voci di corridoio dicono che il presidente Pescante, ad un convegno sulle droghe leggere tenuto insieme a Marco Pannella, abbia fatto una proposta ancora più incredibile: “Obinna presidente della Lega Calcio”.
Noi italiani siamo razzisti, all’estero non lo sono. Johansson, presidente UEFA: “L’Italia sempre peggio, serve l’UE”. Pare che durante l’intervista Adriano e Martins siano apparsi nudi, indossando due cartelloni scritti da Zoro in persona che recitavano: “Sono italiano, e allora?”.
LA trovata migliore è senza dubbio quella della Federazione Italiana Gi(u)oco Calcio. “Il calcio reagisce. Contro il razzismo ritardo di 5 minuti”. Bene! Materialmente…che significa? Gli speaker leggeranno una poesia di Rodari sugli uccellini di colore? O saggi di Marguerite Yourcenàr? Forse, ma ci arrivo con una fantasia pari a quella di Asimov quando scriveva del paria dei cieli, questo ritardo consentirà ai tutti i giocatori di colore di essere resi sordi da un concerto della Wiener Orchestra tenuto in una stanzetta dello spogliatoio di 3 metri per tre…
Concludiamo con le parole del Dossier che l’Inter ha scritto su questo caso. “Lo sfottò di una minoranza”. I famosi cinque deficienti. Tranquilli, la soluzione c’è. Lasciamo che le cose si evolvano così come stanno: biglietti sempre più cari, rischi all’incolumità fisica, strutture fatiscenti. Vedrete, alla fine allo stadio andranno solo quei famosi “cinque deficienti”. E allora sì, li potremo isolare.


PS. Fa discutere la proposta del ministro Calderoli. Sembra infatti che abbia offerto a Zoro, a spese dello Stato italiano, un ricovero nella clinica in cui è stato “sbiancato” Michael Jackson. Compresa nel trattamento, un’indolore castrazione fisica. “Così non dovrai preoccuparti del razzismo verso i tuoi figli”, gli ha detto con voce paterna, carezzandogli una gota.

lunedì, novembre 28, 2005

Mark Andrè Zoro Kpolo, ivoriano

Non resisto, devo dire la mia sul caso della domenica. I fatti. Mark Zoro, ivoriano difensore del Messina non ancora ventiduenne, interrompe improvvisamente un’azione della partita Messina-Inter, dopo essere stato subissato per lunghi tratti della partita dai “buuuu” di parte (?) della tifoseria interista. Raccoglie il pallone e si reca verso il lato del campo in cui avvengono i cambi tra i giocatori, protestando ed indicando la zona della tifoseria da cui provenivano gli ingiuriosi versi. Si parla di razzismo, perché un comportamento di questo tipo non è consono ad una nazione libera e democratica come la nostra.
Il fatto crea a questo punto un importante precedente: non era mai successo in Italia che un giocatore, in modo così eclatante, protestasse per essere stato offeso per il colore della propria pelle. Scandalo, polemica, e giù via tutti gli annessi e connessi. Pappa buona per la tv (che ci camperà almeno un mese), viagra per le trasmissioni sportive. Bla, bla, bla. Tutto giusto, giustissimo. In questo caso il moralismo più o meno marcato ci sta tutto, eccome.
Tuttavia, tra le immagini viste e riviste alla televisione, una più di tutte mi scandalizza. No, non è la sceneggiata di Zoro, ma il tentativo del giocatore dell’Inter Adriano di fermare il collega, strattonandolo, tenendolo per la maglietta, cercando di rubargli il pallone, PER FAR CONTINUARE IL GIOCO. Il nuovo regolamento lo dice chiaro: la partita può essere sospesa e, se si verificasse la colpa della tifoseria nerazzurra, si rischierebbe anche la sconfitta a tavolino. Troppo per un giocatore di calcio. Perdere, ma figurati! Nella stessa maniera si sono poi comportati anche Martins (si dice, si mormora, amico stretto di Zoro) e Materazzi (uno che c’è sempre nelle manifestazioni di beneficenza, ma non famoso per la propria “correttezza” in campo).
Adriano e Martins sono due giocatori di colore, ma non vengono mai fischiati dalle tifoserie, se non per evidenti demeriti sportivi. Adriano e Martins per un momento hanno dimenticato il loro passato per occuparsi di un meno importante presente. Adriano e Martins hanno pensato solo in un secondo tempo che un loro “fratello” era in difficoltà. Hanno prima pensato a se stessi. E qualche ora dopo appaiono sul sito dell’Internazionale F.C. per promuovere la fratellanza e “dire no” al razzismo. Marionette.
E se avesse ragione la Lega Nord, che parla per bocca del quotidiano La Padania? Se effettivamente gli stranieri – straNERI ? - che giocano nelle nostre squadre fossero davvero troppi? E perché di questi “troppi” molti sono giocatori di secondo livello, e pochi veri campioni, o comunque valori aggiunti alle squadre? No, non sono impazzito, ma sto guardando da un altro lato il prisma del fattaccio. Il problema non è il razzismo, o meglio, è un razzismo più becero, chiamiamolo “classismo” (anche se, me ne rendo conto, è una definizione forzata, ma in questo momento di scrittura a getto non me ne viene un'altra). Vi sono ormai stranieri di serie A e stranieri di serie B. Se ti chiami Adriano, giochi nell’Inter, e magari segni tanti gol, sei riconosciuto come campione assoluto, esempio per i giovani “che riescono a farcela nella vita”. Se ti chiami Ronaldinho, addirittura ti applaudono i tifosi avversari dopo due “pere” alla propria squadra. MA se ti chiami Zoro, onesto difensore di una squadra mediocre che si chiama Messina, allora preparati perché per te non c’è immunità, non sei protetto dalla tua fama. Rassegnati. Fate lo stesso lavoro, sgobbate le stesse ore in palestra e sul campo, ma siete DIVERSI. Diversi tra gli uguali.
E a questo punto mi chiedo: ma se davvero anche tra chi ha un background culturale e storico comune – di sofferenza, di lotta, di povertà – non vi è accordo, ma la preoccupazione principale è il bene personale, come possiamo parlare di INTEGRAZIONE? Come possiamo pretendere di portare i nostri figli (e noi stessi!) allo stadio per educarli alla civiltà sportiva? Come possiamo chiedere ai giocatori – che io ho sempre difeso in quanto vittime, ma in questo caso accuso in quanto ipocriti – di fare qualcosa, quando tutto quello che è sport e fair play passa in secondo piano?
Eh sì, caro Zoro. Ti auguro di essere comprato dal Milan, l’anno prossimo. Magari giocherai poco, ma se non altro non dovrai chinarti e a raccogliere quel pallone e diventare icona di chi il rispetto non sa nemmeno cos’è. E per favore, non deludermi: non indossare anche te quei braccialetti bianchi e neri.


PS: Non mi venite a dire che chi fischia, chi fa “buuuu”, sono solo cinque deficienti. Cinque deficienti che fischiano, in uno stadio, non si sentono. Non mi è mai capitato di vedere una tifoseria che si dissocia e isola i famosi “cinque deficienti”. Ormai non ci credo più. Cominciano in cinque, e poi tutti a ruota. Cerco così il lato positivo: tutti pecoroni, fondamentalmente non pensano a quello che fanno e nella “vita vera” non credono davvero a queste baggianate. In attesa che qualcuno mi svegli di nuovo. Buuuuuuuuuu.

domenica, novembre 27, 2005

Vuoto

Oggi non so proprio cosa scrivere, non ho l’ispirazione. La mia testa è un cubo vuoto dai cui spifferi non entrano una situazione, un particolare, un odore, un’emozione, un sentimento. Vuoto.
La colpa è del libro che sto leggendo, un saggio simpatico ma molto borioso sul mestiere di scrivere, sull’ispirazione letteraria e sugli influssi artistici. E’ colpa sua perché sta smontando ogni mia convinzione e sta appianando ogni picco di entusiasmo. Ha reso normale ciò che io ritengo speciale, unico, mio. Mi ha riportato sulla terra, fortunatamente col paracadute.
Oggi so che devo studiare per portarmi ancora più avanti, che devo seguire le partite in attesa che i miei uomini del Fantacalcio mi facciano sorridere, che devo gufare la Juventus per tornare a –2, che devo preparare un articoletto per un giornale e, magari, ritagliarmi qualche oretta per una cioccolata calda.
Ma oggi non ci sono lacrime, non c’è la persistente sensazione di inganno, e nemmeno riflessioni su ciò che mi sta intorno. E’ il primo giorno normale dopo tanti giorni speciali.

sabato, novembre 26, 2005

L'inganno della neve

La neve è bella o brutta? Non lo so, ora come ora ho molti dubbi.
Ho sempre amato la neve. Ogni anno la aspetto con trepidante entusiasmo come se fosse un appuntamento fisso che si presenta poche volte, ma ti lascia sempre qualcosa dentro. Di solito arriva a Gennaio, in quelle giornate grigie ma non fredde come le loro sorelle. L’ho sempre aspettata e ammirata, guardando il parchetto e le strade dalla mia finestra. L’ho sempre vista come un miracolo, come la mano dell’Inverno che chiude gli occhi all’ormai defunta bella stagione. Soffice, leggera, si posa sulla vita e la ricopre col suo colore-non colore, accarezzando il suolo. Coperti i colori, tutto assume sfumature di grigio e bianco, e nelle giornate di sole il paesaggio è luminoso, brilla, come una perfetta superficie lucidata. Risaltano i contrasti, tanto che ogni essere colorato pare alieno al contesto innevato. E poi, quanto divertimento porta la neve! E’ bellissimo camminare sulla neve e sentire i piedi che affondano nel terreno ormai soffice, ricordare i giochi di bambino con palline e pupazzi vari, sognare di cavalcare il manto bianco. Ed è stupendo poi ripensare alla rilassante sensazione vissuta quando sono a pescare e il manto bianco ricopre tutto d’intorno ed io, protetto nelle sottili pareti della mia tenda, penso a quanto sono fortunato ad assistere ad uno spettacolo così. E quando ti svegli la mattina, e vedi dalla finestra i fiocchi che cadono, ti accoccoli nel piumone e ti riaddormenti quasi ipnotizzato dal flusso continuo dei piccoli cristalli bianchi.
Quest’anno, però, non riesco a rivivere queste sensazioni, a guardare con positività alla neve. E’ arrivata presto, inaspettata e dopotutto indesiderata. L’inverno quest’anno ha dato uno schiaffo alla bella stagione, un bel ceffone forte; e ora cerca di ammantarlo di positività posando i bianchi fiocchi sul paesaggio intorno. No, non si fa così. Quest’anno la neve è forfora di una stagione nascente ma morente nelle sue manifestazioni, che pretende spazio indesiderata. E’ subdola. Copre i colori, nasconde la natura, stringe gli esseri viventi in un abbraccio mortale. Sotto l’apparenza mite ed elegante si nasconde un entità che brucia i campi, rende sterili i terreni, un mostro che piano piano muta e diventa trappola anche per noi umani. La neve rende tutto uguale ed azzera le differenze. Lontane sono le sensazioni di meraviglia provate davanti ad una pioggia di foglie.
Perché quest’anno ho così freddo? Perché non sono sotto casa, a godere la caduta dolce della nostra fonte di vita? Perché mi sembri così finta, umana, cara neve?
Ma domani sarà sicuramente un giorno meraviglioso, e capitolerò di nuovo. Ci sarà il sole, e cadrò ancora nell’inganno del tuo mantello bianco.

venerdì, novembre 25, 2005

Brera maledetta

79 euro di multa. Telecamere. Non ho parole, già è un posto che amo alla follia…ora non mi potete privare del piacere di passare le mie serate nelle sue calli, tra i muri che trasudano spiriti benevoli, tra profumi d’oriente e personaggi da Mille e una Notte. Mi avete rovinato la vita. Spioni.

giovedì, novembre 24, 2005

Fogliolacrime

Apro un occhio, poi l’altro. Nella stanza è buio ma sento che là fuori la vita ha ricominciato a scorrere da un po’. Il letto mi stringe ancora nel suo ipocrita abbraccio; è così morbido, accogliente, caldo, che per un momento dimentico che è soprattutto la mia prigione. Oggi ho un pochino più di vitalità rispetto agli altri giorni, il mio debole fisico segue con più coraggio i dettami di una testa ancora viva. Tento di alzarmi e con gran fatica riesco a sedermi. Tutt’intorno è ancora buio ma quasi non me ne accorgo: conosco al millimetro la mia stanza, la mia casa, il mio mondo. Allungo la mano destra verso la parete su cui poggia la testa del letto ed afferro il nastro – mi stupisco ancora di quanto sia meccanico questo gesto, quasi inconsapevole, senza dubbio abitudinario, robotico – che mi permette di far scorrere verso l’alto la tapparella. Sfrutto la sua resistenza per mettermi in piedi ed al primo tentativo ce la faccio. Sono stupito perché è raro che ci riesca: so già che lo pagherò in seguito. Con le poche forze che ho a disposizione e con quel poco di peso che mi rimane faccio entrare un po’ di luce nella mia stanza. Prima pochi raggi, poi sempre di più, fino ad un fascio completo che proietta la mia ombra sul muro dietro di me. Per qualche secondo mi faccio investire dalla luce e ne assaporo la sua luminosità. Il calore è filtrato da quel maledetto vetro, ipocrita anch’esso, che mi permette di vedere ma non di sentire. Poggio tutto il mio peso sul termosifone che ho davanti.
Il calendario segna metà novembre, ma sembra di essere in una di quelle bellissime giornate di fine dicembre. Il cielo è terso, azzurro come quello che ogni bambino sogna di solcare da piccolo. Poche timide e piccole nuvole tentano di solcare quell’azzurro, ma oggi per loro non c’è spazio. Deve fare molto freddo, e deve esserci sicuramente un leggera brezza tagliente. Tutte ipotesi perché quel freddo, che una volta non sopportavo e fuggivo, io non posso sentirlo. Non posso più affrontarlo, sentirlo addosso a me. E mi rendo conto solo ora che in realtà mi faceva sentire vivo, umano, un essere nudo alla continua ricerca di protezione. Vorrei tanto sentirlo, il freddo portato dal suo messaggero vento, ma mi devo accontentare di quello che ho, di una costante temperatura gestita da un computerino.
Abito in una piccola via in periferia, lontano dal caos del centro cittadino e la mia casa è una delle tante piccole villette a schiera che ornano i confini della città. Le villette, che come la mia sorgono su questo lato di strada, sono tutte uguali. Davanti a me si immette un’altra strada, leggermente spostata sulla destra; anch’essa filo d’Arianna per altre villette, tutte diverse, più grandi, boriose, ma con piccoli giardini. Mi sembra di vivere in un acquario, perché vedo ciò che c’è fuori ma non riesco a percepire i rumori. Tutto oggi sembra di cristallo, troppo immobile per essere vivo.
E’ tutto troppo preciso, là fuori. Domina l’angolo. Le case, la strada, le strisce disegnate sul cemento: non c’è alcuna curva, ma solo fredde linee. Il cemento sembra un tatuaggio disegnato su una pelle delicata, è di troppo. Tutto troppo dritto, perfetto. Per fortuna ci sono gli alberi, unica forma che interrompe la monotonia. Anche loro hanno subìto la legge dell’uomo, sono stati piantati millimetricamente lungo il marciapiede uno dopo l’altro. Ma come discoli che disobbediscono alla mamma, spruzzano il loro getto di vita verso l’alto e chiedono spazio all’amico cielo. Ognuno diverso dall’altro, con fronde più o meno lunghe, più o meno cadenti. Tutti però hanno i rami coperti da foglie giallissime, tanto gialle da sembrare dipinte una ad una con la vernice, come su un quadro. Spaesante è la sensazione di un colore così naturale da sembrare innaturale, altro rispetto al grigiore del contesto in cui è immerso. Gli alberi stanno piangendo, sentono l’avvicinarsi dell’inverno e la fine dell’esuberanza estiva. Le loro foglie, che si staccano dai rametti, sembrano davvero lacrime che dolcemente vibrano nell’aria e poi si poggiano sull’inospitale cemento. Quelle che restano sembrano cercare di resistere alla leggera brezza che cerca di portarle via, pur sapendo di non potercela fare ancora per molto. Il contrasto tra l’azzurro del cielo e il giallo delle foglie è meraviglioso, la luce riflessa dalla loro superficie scalda gli occhi. E si intravedono ora le rigide forme delle case davanti, coperte dagli amici alberi per quasi tre stagioni. E se avessero fatto tutto questo per me? Per noi? Per occultare le nostre brutture così necessarie per la nostra sopravvivenza?
Sulla destra qualcosa attira la mia attenzione. E’ il ragazzetto che abita nella casa di fianco alla mia; avrà 14-15 anni, capelli ricci rossi e viso molto chiaro su cui sono impresse poche lentiggini. Saluta la madre svogliatamente, e sbatte il cancelletto dietro di sé. Ha il volto stanco, annoiato, di chi va a fare qualcosa che gli è stato imposto e una camminata ciondolante resa ancora più evidente dai pantaloni troppo grandi e dalle punte dei piedi rivolte verso l’interno. Si trascina sorreggendo il peso di uno zaino azzurro più grande di lui e impugnando una cartelletta di plastica gialla. Tum, tum, tum, tum: andatura lenta e ritmicamente perfetta nella sua imperfezione stilistica. Scalcia. Le foglie davanti a lui sembrano spostarsi prima ancora di ricevere il forte colpo e il grigio cemento sembra farsi spazio di nuovo, creando un piccolo sentiero. NON FARLO! NO! NON PUOI CALPESTARE LE LACRIME! Urlo, tento di farlo, ma non mi può sentire. Non mi sentirebbe nemmeno se fossi ad un metro da lui. Non lo farebbe con cattiveria, non capirebbe. Come non capisce di essere fortunato, di avere quello che io non ho. Ecco però che un filo di vento riempie l’aria di altre lacrime gialle che inesorabili si posano sul freddo cemento, proprio dove sono state da poco spodestate le loro sorelle. Mi cheto e guardo con ammirazione lo spettacolo della Natura, che perdona, che ricuce l’involontaria cicatrice provocata dall’uomo, che ricopre parte di ciò che ha creato l’uomo per renderlo più bello per ridargli l’illusione di vivere ancora in un mondo e non in una gabbia. So che non durerà ancora molto e che sono fortunato ad assistere a questo rito. Fra qualche giorno gli alberi non piangeranno più e tranquilli si prepareranno al riposo invernale. Forse è per questo che gli animali vanno in letargo: non per il freddo, ma perché non ci sono più i colori, gli odori, perché non è possibile vivere in un mondo grigio.
Sono passati solo pochi minuti, ma sento già la fatica che abbraccia il mio corpo. Devo abbandonare subito quella finestra, la vita là fuori, altrimenti rischio di cedere presto alla malattia. Devo tornare nella mia prigione. Fuori gli alberi piangono ancora, e il cielo terso sembra accompagnare le loro lacrime. Un piccolo movimento attira ancora la mia attenzione: sotto la mia finestra un cane nero ciondola sul marciapiede. Le sue zampe però non spostano le foglie, ma vi si poggiano sopra dolcemente. Si ferma, come se mi percepisse. E mi guarda, triste. Vorrebbe essere al mio posto ma sa che non può; e io vorrei essere lì, al posto suo, a piedi nudi su quel cuscino di lacrime. Sappiamo entrambi che il nostro destino è già scritto, ed è questa la condizione che ci spetta. Non ci resta che viverla al meglio sapendo che quel giorno non avremo rimpianti.
Lascio un ultimo sguardo a questo scorcio di paradiso: ora è davvero tutto fermo, cristallizzato. Cado pesantemente sul letto, che mi accoglie di nuovo nel suo ipocrita abbraccio. E mi sento una di quelle piccole foglioline, una dolce lacrima che si poggia sul freddo cemento.

Domande

Oggi è il giorno delle domande. Sì, di quelle noiose, che ti saltano in testa e ti frullano i neuroni come se fossero importanti. Mi chiedo: perché?

Perché quando tento di vestirmi più elegante del solito mi sento un gioppino?
Perché odio le spalline di cappotti e giacche?
Perché mi sono sfasciato una caviglia e ora il tendine d’Achille dell’altro piede mi fa un male bestia?
Perché me ne stanno succedendo di tutti i colori?
Perché un cellulare UMTS che cade da 4 metri di altezza sopravvive e si procura solo un graffietto di 2 millimetri?
Perché il professore ci guarda e rimane interdetto come se avesse visto il fantasma di Wagner?
Perché il teatro è considerato una forma d’arte d’elite?
Perché non rido quando gli altri ridono?
Perché mi sento straniero a Brescia quando gli stranieri sono altri?
Perché in Brescia centro non c’è un dannato ristorante-pizzeria?
Perché poco prima di mettere un paio di scarpe classiche mi appare un vescicone diametro 2cmx2cm?
Perché un SUV?
Perché tutti mi lambiscono coi fari abbaglianti?
Perché sul servizio UMTS non ci sono nemmeno i risultati di Champions?
Perché le attrici di teatro fanno tanto sesso?
Perché fare l’attore di teatro?
Ma soprattutto, perché sono ancora qui a scrivere e non vado all’Ufficio Elettorale?

Ecco, appunto. Scappo.

martedì, novembre 22, 2005

Se si gira la caviglia...

Ebbene sì, finalmente mi sono infortunato di nuovo. Terzo quarto di una partita a punteggio bassissimo e molto tirata. Siamo sotto di due punti e facciamo molta fatica a segnare. Non sono contento della mia prestazione, sto dando quantità ma non qualità sufficiente; bene in difesa, pasticcione in attacco. La tipica sensazione di chi sa di aver fatto un gran lavoro sporco, ma che passa però in secondo piano agli occhi del comune spettatore, perché la palla non va nel cesto. Largo sulla sinistra, aspetto con ansia lo scarico per un tiro da tre easy easy. Matteo penetra con violenza e buca la difesa ma viene chiuso dal loro pivot. Saggiamente scarica la palla a destra a Ivan che, dalla mattonella di fondo campo, prende un tiro pulito. Hai presente la sensazione che hai quando tutto va al rallentatore? Ecco, da quando Ivan riceve la palla tra le mani al momento in cui il pallone toccherà il ferro del canestro, mi sembra di vivere tutto in slow motion. Non so perché, ma un sesto senso cestistico mi dice che la palla finirà dalle mie parti, e che con un po’ di impegno l’avrei fatta mia e consentito alla squadra di fare un secondo tiro prima che finisse il quarto, sperando di riportarla così in parità. La parabola del tiro è buona, la palla rotea armoniosamente, ma batte sul secondo ferro. Dalla linea dei tre punti scatto e mi fiondo sotto canestro, perché QUELLA PALLA DEVE ESSERE MIA. Va tutto come spero: il tiro lungo, la traiettoria verso l’altro lato del campo, il difensore di spalle che non si aspetta il mio intervento a rimbalzo. Il tendine tira forte sul tallone e mi dà la giusta leva per spiccare un buon salto. Bellissima sensazione sentire il proprio fisico che fa quello che vuole la testa, sentire i muscoli che si contraggono e sprigionano forza e agilità, e per pochi istanti vincono quella forza che ci consente di non restare sulla Terra come panni in lavatrice. Il volo è interminabile, ma finalmente sento la pelle della palla a spicchi tra le mani. Prima la destra, poi la sinistra – STOC! – con un gesto a tenaglia pressurizzo la sfera tra le mie mani. E’ MIA! Ma se altrettanto lunga è stata la salita, la discesa lo è di più. In quei pochi decimi la testa pensa già ai secondi successivi: all’atterraggio, alla ricerca di un secondo tiro immediato, allo scarico per un compagno che entra a “rimorchio”, allo scarico per un tiro da tre stando attento ai “tre secondi”, o semplicemente ad un’uscita in palleggio per ridare aria all’azione. E molto spesso, quando pensi troppo in là, capita di dimenticarsi che c’è ancora qualcosa da fare. Il piede sinistro poggia a terra in modo soft, perché fisicamente sono davvero tonico. Con certa sicumera poggio quindi anche il destro. NO! C’è qualcosa che non va, sotto di me non c’è il pavimento della palestra! Calpesto una forma irregolare, il piede si piega all’esterno innaturalmente: cado sulla scarpa di un avversario! Sembrerà strano, ma in questi casi un barlume di lucidità lo si ha ancora per evitare il peggio. Appena me ne accorgo butto via la palla e cerco di spostare il peso all’indietro per cadere. Non è sufficiente – la caviglia mi si gira comunque – ma mi consente di non poggiare tutti i miei 65 chili sui 4 ossicini del malleolo. Boom! Volo per terra, e sento scricchiolare la caviglia. Non dolore, è solo un fastidio crescente. “Meglio così”, mi dico pensieroso, sperando così di poter continuare a giocare e rimettere quindi in piedi una prestazione opaca. Finisce il quarto, il fastidio c’è ma non mi impedisce di giocare. La caviglia pulsa, come se una creatura esterna si fosse introiettata nei tessuti. Sento la scarpa che lotta per contenerla e l’abbraccia mortalmente per sopire il suo grido di fastidio. Non fa male, la botta è calda, e l’adrenalina agonistica è un potente anestetico. Corro, salto, tutto come prima. All’apparenza. Finisce il quarto, e così la partita. Perdiamo di un punto, dopo una mia scelta forzata nel tiro da tre finale non andata buon fine. Doccia, cena con la squadra e tutti a casa. ORA FA MALE. Poggio a fatica il piede, sento i nervi vibrare ad ogni passo, le dita che timide cercano un appoggio sicuro al terreno. E’ come se il mio piede mi stesse facendo pagare il fatto di non averlo ascoltato nel match. Fa male tutto: pianta, malleolo, metatarso, tallone, tendine, dita. Come una cancrena violenta sento il dolore estendersi alla gamba destra. E la caviglia si ingrossa. Mi sta dicendo: “Guarda cosa mi hai fatto, sto male”. Stringo i denti e arrivo a casa. Massaggio l’articolazione con una pomata nella speranza di alleviare la sofferenza della povera caviglia, come se le stessi facendo un dono dopo una litigata. Vado a letto, e riapro gli occhi poche ore dopo. La mia “bimba” è ancora arrabbiata, urla di sofferenza. Scusami mia cara, sono stato egoista.

lunedì, novembre 21, 2005

Quanto è lunga la notte

Traduco con parole mie il testo di una canzone che mi fa venire i brividi ogni volta che l’ascolto.

Se scappassimo lontano, credi che moriremmo lo stesso?
Butteremmo questi ricordi nel fuoco…
Fermeresti un treno,
Perché ti causa ritardo?
La macchina del cambiamento ti ha mentito,
Ed è troppo tardi per urlarlo.

Quanto è lunga la notte?
Non finisce mai.
Il nastro è stato annodato,
Ma il biglietto non è stato letto mai.
Quel nastro era cremisi,
Il colore della notte.

Riesci a leggere quelle scritte sul muro?
E le foglie che cadono in autunno?
Cosa stiamo facendo?
Gli alberi collassano su di noi,
L’ago e il filo ci cuciranno ai loro rami,
E la notte non finirà mai.

Non dormirò mai più.
Non chiuderò mai più i miei occhi.

Se il sole seguirà il suo percorso,
Allora noi non moriremo mai.
E seguiremo quella traccia a vista.
Ma ora i polmoni muoiono,
E l’aria si fa tagliente.
Il respiro ci abbandona,
Ed è troppo tardi per guarire.

Quanto è lunga la notte?

Ecco ciò che non vedrò mai più.
Ma la vita è così luminosa nei ricordi,
Nelle immagini che tu mi hai donato.
E’ tutto ciò per cui vivo.

Sto precipitando.
E tu non sei qui a fermare la mia caduta.
Chiudo i miei occhi quando tu sei con me.
Trattengo il respiro per uccidere il suono della tua voce.
Sto precipitando.

E tu non sei qui a fermare la mia caduta.

domenica, novembre 20, 2005

La suoneria

Nel pomeriggio di ieri chiamo un caro amico per definire i dettagli di un appuntamento che avremmo avuto nel pomeriggio. Compongo il numero e mi metto in ascolto attendendo la connessione. Driiin Driin al cubo: nessuna risposta. “Evidentemente sta dormendo, è impegnato, o è in luogo in cui non può rispondere”, mi dico chiudendo il guscio del mio cellulare. Ritento una decina di minuti più tardi e succede la stessa cosa. Idem per la terza e la quarta. Passa così un’ora. Mi metto al computer a scrivere una lettera di presentazione per uno stage, quando mi suona il telefono di casa: è mia zia che non mi sente da tempo e ha voglia di chiacchierare. Bum, cha, Bum, cha, parte il beat che ritma la suoneria – orrenda – del mio cellulare. E’ il caro amico che mi ha fatto uno squillo. Finalmente! Cerco di stringere la telefonata con la zia, metto giù, e riprovo a chiamarlo. Driin Driin al quadrato: nada. E riprovo cinque minuti dopo: nada. Comincio a chiedermi se tutto questo non sia uno scherzo. Provo a fare il duro: “Se gli interessa, richiamerà”. Torno alle mie faccende, quando mi coglie un lampo intestinale che mi spinge nel luogo dove si fanno le più belle letture della vita. Bum, cha, bum, cha, ci risiamo! DEVO rispondere, questa volta! Ma il cellulare è lontano, in un’altra stanza! Provo ad allungarmi tipo Tira e Molla, ma niente, devo desistere: l’ho perso di nuovo. Ormai sconsolato, ritento senza speranze. Driin Driin per pochi attimi e il solito, sconcertante, risultato. Sono passate circa due ore dal primo tentativo di contatto, quando finalmente l’orripilante suoneria mi comunica una chiamata in entrata: riesco a rispondere! “Scusami, ma non avevo la suoneria”. COOOOOOOSA!?!? Affosso il tasto “Invio” della mia tastiera, tanto che si incastona direttamente sulla scrivania. Il tutto in rigoroso silenzio, per non urtare l’amico. “Ma sì, figurati! Allora oggi, bla baala balalalala”, lo metto a suo agio organizzando il pomeriggio, nonostante sappia benissimo che i suoi timpani sono ormai poltiglia per l’intensità dei fischi che ha sentito a causa dei miei improperi. Le nubi arrivano una volta interrotta la chiamata.
L’abitudine di tenere spenta la suoneria è dilagante nel mio gruppo dei pari. Amici, sorella, parenti. Ore e ore a cercare di rintracciarli. Perché? Perché tenerla staccata? Posso capire – giustamente – situazioni in cui la suoneria equivale a maleducazione, come sul luogo di lavoro, sui mezzi pubblici, o durante un appuntamento importante. Ma nelle altre situazioni? Ho provato a chiedere motivazioni, e tanti rispondono “mi sono dimenticato di riattivarla”, “non voglio che gli altri sappiano quando mi chiamano”, “le suonerie sono tutte brutte, mi fan schifo”. Ma la migliore è: “mi dà fastidio”. INCONCEPIBILE! Almeno per me, che vedo nel cellulare una protesi che mi consente di essere reperibile sempre, quando mi è consentito. Altrimenti, cosa lo teniamo a fare il cellulare?
Lo prometto, per questa settimana proverò a tenere staccata la suoneria del cellulare. Così mi farò un’idea. Sarà dura, perché ogni volta che sento quelle quattro note in croce, è come se una mano mi picchiettasse la spalla e qualcuno mi dicesse: “Ehi, ho bisogno di te, ascoltami”. Il pregio-difetto di questa tecnologia è che posso decidere o meno se ascoltarlo. Ma se non altro non lo ignoro, e questo mi fa stare meglio.

PS: La storiella-pretesto all’inizio del post si basa su una situazione realmente vissuta, anche se evidentemente “gonfiata”. La persona coinvolta sa benissimo che sarebbe stata protagonista di questo capitolo e spero mi perdoni se l’ho in qualche modo offesa. Comunque vada, gli offro di partecipare per tre quarti alla spesa per la riparazione dei timpani!

sabato, novembre 19, 2005

Magister elegantiae (replica)

I grandi poeti, avanguardisti o meno, hanno potuto sperimentare, creare, e appropriarsi di un proprio stile solo sulla base di un pregresso studio di una lingua. Senza la conoscenza della lingua, non avrebbero potuto sperimentare. I grandi musicisti innovatori partono da una base condivisa, dal linguaggio della musica. Possono distinguersi, ma non possono fare a meno di una BASE CONVENZIONALE.
Allo stesso modo i grandi stilisti o il semplice alternativo che va in università. Prende un linguaggio ESISTENTE, CONDIVISO, e lo strapazza, a suo piacere. Quello che tu critichi come un mondo ridicolo, in cui non ti riconosci, è la base di partenza per il tuo dissenso. MA attento. Non puoi mettere la copertina di Teletutto su Famiglia Cristiana e poi venderlo in parrocchia. Attendo il giorno in cui, al tuo primo colloquio di lavoro, ti presenterai in giacca e cravatta ma senza indossare i pantaloni. Per comunicare il tuo dissenso, per far vedere il tuo essere (cioè ciò sulla base del quale dovresti essere giudicato). O più semplicemente aspetto il giorno in cui anche tu, caro amico, sarai in difficoltà e in paranoia perchè ti senti a disagio nel tuo guscio di tessuto. E nella tua testolina non dirai: "che figo sono un alternativo". Ma ti interrogherai sul motivo per cui, invece di ipertrofizzare la tua personalità sulla base di un capriccio, non hai preferito assecondare per poche ore qualcosa che non ti appartiene totalmente, ma è parte integrante della cultura che ti permea.

venerdì, novembre 18, 2005

Piccoli Grandi

Da questa mattina sono afflitto da un potentissimo raffreddore. E pensare che fino a ieri sera stavo benone, mi gustavo Godzilla alla tv e facevo un grandioso sonno riposante.
In poche ore, dopo essermi svegliato, ecco però l'esplosione del morbo. Occhi pallati, temperatura in rialzo, spossatezza fisica e mentale; per non parlare di deliranti discorsi proferiti dalla mia bocca ormai secca, sede di una lingua che si accartoccia e abbisogna di acqua come una medusa sulla battigia. L'ennesimo raffreddore. Azz.
Questo però mi fa pensare: noi umani siamo tanto bulli, ma bastano degli esserini invisibili, bastardi, e soprattutto inconsapevoli di quello che fanno, per buttarci a terra. Siamo davvero i più forti? Siamo davvero i migliori? O siamo solo graziati da una Natura per ora fin troppo benevola? E se siamo i più deboli, come facciamo a non soccombere? Il cervello, mi dirai. E il fisico? Ti dico io. C'è qualcosa che non va...

giovedì, novembre 17, 2005

Testa e cuore

L'intelletto cerca, il cuore trova (George Sand)

Sei parole d'essenza della mia e della tua vita.
Allora non siamo soli.
Non ci credo.

mercoledì, novembre 16, 2005

Magister elegantiae

Ogni volta che devo essere partecipe di qualche occasione particolare cado nel panico perché non so mai come vestirmi. Apro cassetti, antine, cassoni, ma tutto mi sembra troppo brutto, troppo vecchio, troppo pittoresco o troppo poco sobrio. E anche se trovassi un capo che mi piace e che ritengo idoneo all’evento, non avrei tregua perché brancolerei nel buio sull’abbinamento dei colori. Marrone, blu, verde…insomma, dal momento che non si possono indossare sempre i jeans, bisogna sapersi vestire in altro modo. MA NON LO SO FARE. NON ME LO HANNO INSEGNATO. NON MI HANNO DETTO CHE DOVEVO IMPARARLO. Me ne rendo conto solo ora: se il sabato sera, prima di uscire, avessi seguito i consigli di mio cugino anche solo qualche volta, ora avrei molti problemi in meno. E di chi è la colpa? Perché sono in questa condizione? Sì, è colpa mia in gran parte ma…perché nessuno mi ha OBBLIGATO ad imparare qualcosa riguardo allo stile e al bon ton?! L’abito fa il monaco, è inutile che lo si neghi. L’abito è ciò che comunica l’essere in prima impressione (che è quella che conta di più, OVUNQUE). L’abito è espressione, è comunicazione. L’abito è come un testo. L’abito è un linguaggio! E io mi chiedo: perché questo linguaggio non viene insegnato nelle SCUOLE? Perché lasciare milioni di ragazzi – disinteressati, come me, al buon gusto nel vestire – privi di un insegnamento diventato ormai fondamentale per la sopravvivenza nel mondo sociale odierno? Le organizzazioni deputate all’educazione dovrebbero fare un esame di coscienza e chiedersi se davvero non stanno commettendo una mancanza verso noi poveri ragazzi. La famiglia è una primaria fonte di educazione ma non può far tutto, per questioni di background culturale. E allora, perché non dedicare un’oretta alla settimana allo studio del linguaggio dei vestiti? Perché non educare il giovane alla bella presenza? Perché non illustrare le proprietà dei tessuti, il significato delle texture e la storia della loro economia, da sempre baluardo della nostra cara Italia? (Dopotutto per l’economia italiana il tessile è come Manzoni per la letteratura).
Preparare un ragazzo al mondo significa anche questo. Coltiviarlo interiormente, ma allo stesso tempo stimolarlo esteriormente. Facciamogli capire che se un tartufo fosse anche meno puzzolente e brutto varrebbe ancora di più. Consapevoli – non belli – dentro e fuori, è questo ciò che la scuola dovrebbe perseguire. Sì, perché se l’avessi imparato ai tempi, forse il tempo che dedico oggi alla scelta di un capo adatto ad ogni occasione lo potrei destinare alla lettura di un buon libro. Migliore fuori, migliore dentro.

PS. Caro amico, so che stai inorridendo leggendo le mie parole. E che potresti dimostrarmi come l’arte della moda non è una scienza esatta ma, in quanto linguaggio, abbraccia un’ampia varietà di contributi non catalogabili. E che nella moda tutto è l’esatto contrario di tutto, perché ognuno comunica se stesso a suo modo. Il mio pensiero parte dal presupposto che le cose non stiano così: nel vestire esiste un galateo. E io voglio sapere qual è. Perché, lo so bene, in questo momento stai ripensando a quante volte ti sei fatto le domande che mi sono posto io allo specchio. Voglio che qualcuno mi spieghi cos’è “l’abito giusto per ogni occasione”. Più che un mio dovere, credo sia un mio diritto!

martedì, novembre 15, 2005

Maieutica

Non sai quante volte mi sono chiesto: “ma studiare serve davvero?”. E in secondo luogo: “ha ancora valore al giorno d’oggi una formazione di tipo umanistico?”. Sono risposte che non mi puoi dare tu – so che sei un amico, mi proporresti lo scenario migliore possibile – né nessun’altro. Solo il tempo lo dirà. Però qualche segnale l’ho potuto già cogliere ora, nel presente, vivendo un’esperienza per certi versi straniante, ma dopotutto piacevole e confortante. Ecco allora quello che mi è successo nel pomeriggio di ieri.
“Sai cos’è che ci frega, caro Fabio?”. “No Buddy, cosa?”. “Siamo passati da un estremo all’altro”, dico io posando le mie membra sul sedile in uno dei primi scompartimenti del treno. “Vedi…siamo passati da gente che nel tempo libero non fa altro che parlare di Joe T Vannelli a gente che passa il tempo a discutere della Fenomenologia di Kant”. “Fenomenologia!”. “Chi è stato…siete voi? Chi studia Kant?!”. Questa volta a rispondermi non è Fabio, è una voce diversa a cui inizialmente non faccio nemmeno caso, ma che squarcia la nostra discussione e arriva a me inaspettata (ormai) come un regalo di S. Valentino. Giro lo sguardo e cerco la persona che ha risposto alla mia osservazione. Nel corridoio del treno vediamo un canuto signore sulla sessantina che sta venendo controcorrente (tutte le persone stavano andando nell’altro senso) verso di noi. Non faccio in tempo a guardare Fabio che…”Scusatemi se attacco bottone…ma i miei studi…eh, sono passati trentacinque anni…quasi quaranta…ma ditemi…come mai stavate parlando di Kant?”. Lo dico francamente, la prima considerazione che la mia testolina ha fatto è stata: “Oh mio Dio, ma questo che vuole da noi?!”. Sapendo di essere in bilico su di un precipizio pericoloso, io e Fabio ci schermiamo, dicendo semplicemente che le nostre erano reminiscenze degli studi passati, usate per argomentare una discussione sulla nostra università. “Ah, e che avete studiato?”, rincara la dose il signore. “Classico”, dico io. “Ah! Bene!”. Il suo volto si illumina come se avesse visto la Ferilli nuda. “E dove?”. “All’Omero di Bruzzano”, rispondo. Ora vede l’Arcuri: “ma pensa! Mia nipote…sì sì – è chiaro che non ricordasse il grado di parentela esatto, ma per lui non era importante in quel momento - …ha fatto l’Omero…e dimmi, chi era il tuo professore?”. “Ottima scuola, eh?”. “Ma c’è ancora?”. Mi pone una scarica di domande a cui rispondo immediatamente. Ormai è partito, non lo ferma più nessuno. Ha fatto il login con noi e ce lo dovremo portare fino in fondo. Già di mio non sono uno che parla tanto e che, anzi, preferisce starsene sulle sue, soprattutto sul treno. Tanto che cerco, guardando fuori dal finestrino, di eludere la sua pressione; ma sotto sotto sono anche incuriosito. Quell’omino tanto strano – è rarissimo trovare persone che attaccano bottone sul treno – CONDIVIDE QUALCOSA CON NOI. “Sapete, io ho fatto il classico ma son finito a lavorare in banca…però in sei mesi ne sapevo quanto quelli che erano già lì da tanto tempo…il classico ti abitua a pensare…studiare i grandi pensatori serve, eccome…riesci a pesare la persona che hai davanti…sapete, è importantissimo riuscire a dominare una discussione…ad esempio, io che ho fatto politica per tanti anni, mi trovavo a parlare con ingegneri, medici…e pur non avendo studiato le loro materie bastava una parola al punto giusto per appenderli lì…chirurgo, da keiros…”, e mi guarda tenendosi il polso sinistro con la mano destra. “Sai cosa vuol dire…dal greco…”. “Sì, mano”, rispondo sudato come ad un’interrogazione al liceo. Son preoccupato, perché il timore di non riuscire a dimostrare quello che so ad una persona più grande di me è sempre stato un mio freno. Però dopo questa risposta sono compiaciuto: qualcosa in testa mi è rimasto! WOW! Provo un altro tentativo di svicolare la discussione, e per fortuna ci pensa Fabio, che racconta dei suoi studi. “Eh sì, ti servirà l’istituto tecnico, vedrai…anche se ora non ricordi nulla…pensa a quando parlerai con un ingegnere…basta una parola al punto giusto e l’hai intortato…poi adesso mi sembra che siano più orientati al sapere umanistico…”. Anche Fabio è preso bene. “MA cosa state studiando?”, chiede il vecchio con aria veramente incuriosita, qualità rara da trovare anche nei nostri più interessati parenti. “Scienze della comunicazione”, dico. Il signore si allarma, dalla sua espressione quasi sembra di essere scesi di un gradino nella sua scala di gradimento. Edulcoro la pastiglia: “ci siamo laureati quest’anno…la laurea triennale…ora stiamo facendo una laurea specialistica in Scienze dello Spettacolo”. A fatica, ma vedo risalire le nostre anime su quel gradino. “Ce ne son tanti, vero?”, dice con aria preoccupata. “Sì”, dice Fabione. Io tento un fulmen: “Già, è vero…però sempre meno degli studenti di giurisprudenza!”. Dal volto dell’uomo noto che non ha una gran stima per gli avvocati… Ormai siamo comunque in un viaggione. Io cerco di galleggiare in una situazione che mi affascina ma allo stesso tempo mi mette a disagio. L’unico contatto che mi rimane con la realtà e non mi manda in affanno definitivamente è il ginocchio di Fabio. Ogni tanto me lo picchietta, e capisco che anche per lui è la stessa cosa: se affoghiamo, siamo in due!
Il treno è partito, e non ce ne siamo accorti. Il nostro amico ora sta discettando dell’arte del pensiero con Fabio. “Sai, il nostro pensiero è fatto a scatole”, afferma gesticolando ampiamente, “una più grande dell’altra…e quello che hai studiato rimarrà in una di queste scatole, e verrà fuori quando servirà…tutto sta a saperle richiamare…MAIEUTICA!”, e mi guarda. Oh mio Dio, ci siamo, ‘mo mi chiede cosa vuol dire. Cerco disperatamente risorse dalla morchia dei miei ricordi, ma non trovo nulla. Getto sul tavolo una scusa debole: “mi ricordo la parola…ma non la so connettere ad un concetto preciso…”. Il signore si illumina e, dal suo sedile, salta alla mia destra: gasatissimo, comincia a spiegarci la maieutica. “Sai cosa faceva Socrate? Ricordi?”, mimando un gesto “pull”. “Faceva nascere…”. E Fabio: “ma sì dai, ti ricordi?”. Io, obiettivamente rinvenuto dopo lo svenimento: “Già, è vero!”. L’arte di far nascere il pensiero. E ora chi se lo scorda più!
Fabio scende alla sua fermata, e sono solo. Preoccupatissimo. A disagio. Ma pur sempre affascinato dalla possibilità di sostenere una discussione con uno che ne sa più di me. E che stimo, perché non fa il professore, non mi schiaccia sotto la sua cultura. E’ come un nonno che vuole crescere bene i suoi nipotini; gli stiamo simpatici e vuole mettere a nostra disposizione i suoi ricordi. Umilmente, con quell’entusiasmo che solo l’amarezza della nostalgia di qualcosa di passato gli può portare. E’ giusto che gli dia – mi dia! – una possibilità. Gli parlo un po’ di me, gli racconto dei miei studi, di quello che sto facendo, e di quello che mi piacerebbe fare. Lui mi racconta del suo passato, dei suoi studi, dei suoi viaggi in Russia, in Spagna, dei suoi trascorsi politici, di sua moglie, del TAV e di alcuni personaggi storici della mia Paderno. La preoccupazione svanisce piano piano, perché finalmente sono a mio agio: perché penso sempre che gli estranei vogliano farmi del male? Nostalgia della giovinezza, ti dicevo. Mi racconta di un suo viaggio in Spagna e del “calore” delle donne iberiche. E sghignazza, sapendo di raccontare qualcosa di “giovane” che lo linka ancora di più a me. “Ma mia moglie non l’ho mai tradita…ci vuole rispetto per le persone…e noi italiani siamo i migliori al mondo in questo…non come gli anglosassoni”. “Fai come il tuo amico, vai in America, o in Inghilterra, almeno un anno…Noi italiani siamo i migliori, ma la cultura egemone è la loro…e solo conoscendoli possiamo dominarli, e conviverci…loro non hanno rispetto per la persona…non come noi latini…sono molto materiali!”. “Ah! Queste nuove tecnologie! Ho imparato settimana scorsa dopo 5 anni a scrivere un SMS!…Vedi io, noi…tutti quelli della nostra età…non riusciamo ad entrare nel meccanismo mentale…per i miei nipotini è facile…già, il tempo è passato…”. Il suo sguardo si vela di tristezza per qualche istante. “Però voi siete il futuro, è tutto nelle vostre mani! E dovete farcela!”, indicando me e altri due ragazzi che sono seduti vicino a noi (e che, va detto, erano imbarazzatissimi!). Scorgo l’insegna della stazione: devo scendere. E soprattutto devo salutare il mio nuovo amico. “Arrivederci, è stato un piacere parlare con lei!”, gli dico porgendogli la mano. Lui, ancora una volta, con umiltà: “scusatemi ancora se ho attaccato bottone, ma mi avete fatto tornare giovane…è raro sentire parlare i ragazzi di queste cose…vi ringrazio davvero”. Mi accingo a scendere gli scalini del treno. E la sua voce: “ragazzo, mi raccomando, non buttare via il tempo!”.
Scendo, stranito. E’ questa la cultura? Ciò che ci accomuna? Due stagioni di vita così diverse, ma la stessa voglia di comunicare? Il signore mi ha dato una risposta importante.
La cultura unisce, umanizza. Dà speranza, conforto, è l’appiglio per l’infelice e il trampolino di lancio per chi felice fortunatamente lo è. E’ condividere due storie diverse ma che hanno le stesse radici. E’ rispettarsi e non temersi a vicenda. E’ un modo per tornare giovani, è una risorsa per crescere. Mando un ilare SMS a Fabio. Ma dentro non lo sono proprio. Ci sono tante altre domande che meritano una risposta. Non posso buttare via tempo. No, proprio non posso.

lunedì, novembre 14, 2005

Pienone, oggi

Oggi è una giornata dannatamente piena. Piena d'impegni, ma anche di spunti per animare questo meraviglioso blog (Scusami, ma non sono modesto di natura, trad. Bendazzi). Che esperienza sul mio amato treno...domani ti racconto tutto, stai all'occhio!

domenica, novembre 13, 2005

Expogoal 2005

Ma come si fa a fare una fiera sul soccer senza i suoi protagonisti? E' come un hot dog senza il wurstel.

sabato, novembre 12, 2005

Una Misteriosa Tecnologia Sociale (sottotitolo: Gioca Pure, Rimani a Secco)

UMTS. GPRS. Ebbene sì, finalmente sono entrato in possesso di queste nuove tecnologie. Non che mi interessassero più di tanto - a dire la verità, mi interessavano eccome, ma la scarsità di pecunia ha fatto sì che mi autoconvincessi della loro inutilità - però ora che le ho posso trarre alcune brevi conclusioni, smentibili ovviamente nel giro di pochi minuti o anni.
SONO INVECCHIATO DI BRUTTO. Mi sembrano lontani anni luce i giorni in cui trasportavo nelle mie tasche il citofono della NEC, lungo 20 cm, pesante 300 gr, addobbato con tasti che dovevi pigiare col martello per farli funzionare. E il 3210, il 3310...giocattolini! Mi ricordo, quando comprai il mio primo cellulare, di quanto fossi felice ma anche spaesato, perchè la possibilità di scrivere messaggi e di chiamare qundo mi pareva erano cose che a quel tempo ritenevo inutili: son sopravvissuto finora, a che mi servono? Poi ti rendi conto che la devi smettere di fare il figo, e soccombi al mercato per "colpa" di una ragazza. E vabbè. Cmq, mi sembrava già tanto mandare messaggi, o giocare con le suonerie, o ricevere i disegni composti sui pixel del Nokia. Rotti i Nokia - ti durano un anno, poi li butti nel cesso, tipo gli Swatch - sono costretto a girare con un infimo Siemens vinto coi punti OmniOne. Ma è WAP. Azz, Wap, che tro*ata! E che me ne faccio? Due settimane dopo, vinto dalla curiosità, mi iscrivo ad un esame dell'università tramite il cellulare. Ora col cellulare fai foto, leggi mail, vedi la tv e, soprattutto, non si capisce subito come cavolo si usa! Ti trovi sei milioni di possibilità davanti, 9 icone e 15 tasti ti portano nel meraviglioso mondo dell'UMTS. Una volta non l'avrei mai fatto, ma adesso mi trovo costretto a leggere il libretto delle istruzioni. Già, son proprio un matusa!
LA TECNOLOGIA E' SUBDOLA, E TI ASPETTA A GAMBE APERTE. Dicevo, "tutte quelle funzioni non mi serviranno mai". "E che me frega di mandare foto a destra e a manca?". Sì, forse non mi interessa più di tanto, ma una volta avuto in mano la tecnologia L'HO PROVATA SUBITO. MMS, EMS, TV, E-MAIL, GIOCHI. Tutto e subito, con buona pace del portafoglio. A questo punto mi viene da sposare il determinismo tecnologico.
VODAFONE E' ANCORA PIU' SUBDOLA. Accendi il telefono, e sembra come tutti gli altri. Ma non lo è. E' Vodafone Live! la vera novità. Ed è anche la parte - per loro - più remunerativa. Tanto che ti trovi un tasto sulla destra, non segnalato come vettore per il portale internet (a pagamento), che assomiglia a tutti gli altri tasti (cioè al suo compare di sinistra, che apre il normale menu del telefono). Se sei destrorso, poi, ti viene quasi automatico confondere il tasto V.Live! con quello del menu (o, peggio ancora, col tasto d risposta): purtroppo se sbagli, paghi. Ebbravi i nostri gestori! Vedo il lato positivo: imparerò a porre attenzione a TUTTO nella mia vita.
VORREI ESSERE ROCKEFELLER. Sì, perchè è impossibile non invasarsi. Soprattutto per uno come me che legge le email 10 volte al giorno, ha un forum e ora un blog. Dal cell ormai puoi fare tutto, ma i prezzi sono proibitivi. E meno male che chiamare e mandare SMS era costoso!
MI RICORDERO' DI TUTTI I COMPLEANNI. Finalmente ho una funzione che mi avvisa degli eventi importanti. LAcrime.
LE SUONERIE POLIFONICHE FANNO SCHIFO. L'unica cosa per cui mi sono pentito: ma si può andare in giro con suonerie così???!!! E soprattutto, perchè escludere dalla lista di default il classico "driiin", o "beeeep"??!! Mi ritrovo con una tamarissima suoneria New Wave, in attesa, a questo punto, di sostituirla con un mp3 che scaricherò prontamente sul mio computer...
Di più, per ora, non so dire. Anche perchè delle funzioni disponibili ne avrò sfruttato solo un 10%. Azz, vedi, nemmeno il tempo per scrivere il blog...subdolo cellulare...

venerdì, novembre 11, 2005

Sedersi...per forza!

Mah, sono sempre più perplesso. Ogni giorno, sul treno per andare e tornare dall'Università, assisto a scene esilaranti, sotto certi aspetti sorprendenti, ma in fondo profondamente sconcertanti. Ecco quello che mi è successo oggi.
Finita la lezione in università, con un mal di testa pari a quello che aveva Ivan Drago dopo il cartone di Rocky Stallone, mi appropinquo in stazione per cogliere al volo il treno delle 13.23. Sbadam! Salto sulla carrozza con l'agilità di Vince Carter e noto con piacere che c'è ancora qualche posto libero. "Ah, lì ce ne sono due, mi infilo lì". Oggi ho proprio bisogno di spazio, perchè oltre alla tracolla ho anche un'altra borsa. Mi siedo, con gli Alexisonfire a palla nelle orecchie e comincio a sfogliare il Corriere. Fra una riga e l'altra ne approfitto per osservare i miei dirimpettai. E te pareva! Classica coppietta sweet sixteen, baci bacini baciotti palpatine e via andare! "Respira", mi dico. "DOpotutto capiterà anche a te"...prima o poi (sic!). Per evitare ulteriori pugnali frappongo tra me e loro, oltre al Corriere, Style, Trovo Casa, il vecchio piano di studi in busta trasparente e un cartonato pubblicitario di Elena Santarelli tenutomi via dal mio edicolante di fiducia. Resisto qualche minuto, se non fosse per le prime note del disco di James Blunt: ci risiamo! Rapidamente afferro il Packard Bell, schiaccio un tasto a caso e finalmente la musica cambia: sintonizzo la radio. Ora sì che si parte! Prima fermata. Gremita, il treno fa il tutto esaurito in due minuti. Tranne in due punti: alla mia sinistra, dove tengo la borsa, e nei sedili di destra, a fianco di un vecchio che mi ricorda di brutto il protagonista delle vignette, Eritreo Cazzulati. Non mi pongo alcun problema, anzi, col freddo che fa oggi più siamo più stiamo caldi! Alla seconda fermata, però, la situazione cambia. Evidentemente accorse dopo la falsa notizia che sul treno ci fossero Costantino e Kledi, centinaia di signore tra i cinquanta e i sessanta cicaleggiano sulla banchina in attesa del treno. Stoc! Uno studente apre la porta e, prima di riuscire a mettere fuori un piede dall'uscio, viene travolto dall'orda di barbare. Tutte rigorosamente gonnate al ginocchio, con capi che gli consentono una limitatissima mobilità articolare inferiore, fanno a gara a chi si attacca prima ai pali di sostegno del vagone. Il povero studentello, urtatane una per errore con un portachiavi dello zaino, viene travolto da un paio di improperi: "Maleducato! Voi giovani di oggi non avete più rispetto!". Appurato che il luogo comune non alberga solo in tv, mi preparo ad assistere all'invasione. A gruppi di 3-4, si lanciano nel corridoio centrale del vagone e, come salmoni in risalita in un fiume, guizzano di qua e di là, travolgendo borse, zaini, gomiti, un ombrello e calpestando un piede ad un povero invalido che non poteva piegare una gamba. Ad un certo punto, il silenzio. Il vagone si pietrifica. Rimuovo le mie protezioni e mi guardo intorno. In fondo al vagone, davanti a me, una donna tarchiata, capelli rossi, due occhiaie da paura, ha adocchiato il posto libero di fianco a me. Ha gli occhi di una tigre, sono quasi spaventato! Insieme a lei, altre tre tigrotte pronte a mordere. "Stiamo freschi! Meglio non provocarle", mi dico. Un suono poi attira la mia attenzione; proviene da dietro, dall'altro ingresso. Una donna mora, alta ma valchirieggiante, guarda dritta lo stesso punto delle sua consessuata rossa. Sbuffa. Occhi iniettati di sangue, narici che si allargano, caviglie che scoppiettano in attesa di fare trazione. E con lei, altre due amiche, target oriented, of course! In pochi decimi di secondo, ripongo il Corriere e mi infilo il giubbotto antiproiettile di 50 Cent trovato in omaggio dentro a Men's Health: la scena mi ricorda un western! Non ci sono le palle di fieno, ma l'odore di stalla e cadaveri sì... Ebbene partono, entrambi i gruppi di donne capeggiati dalle loro leader. La rossa con passo veloce, lo sguardo che ignora l'obiettivo ma scorge ogni movimento dell'avversaria e i tacchi delle scarpe che segnano il pavimento del treno. La mora con lunghi passi, lenti ma pesanti come i film di Murnau. "Se cozzano, qui muore qualcuno". Entrambe accelerano il passo quando son più vicine all'obiettivo, sento il calore dei loro corpi che denota nervosismo. I due giovani davanti a me, terrorizzati, si stringono la mano e mi chiedono se li posso sposare. "Mi spiace, ma non sono ancora prete!". Ora sono davvero vicine...oh mio Dio! Arrivano pari: mo chi si siede?! Io ho ancora la borsa sul sedile, mi son dimenticato di spostarla: ho paura! Anche loro la vedono, ed esitano. Fingono di parlare del più e del meno. Ma si scrutano, e scrutano me... Velocemente, e senza farmi notare, sposto la borsa. "Mi scusi, è libero lì?!". Le due leader mi chiedono NELLO STESSO MOMENTO, LA STESSA COSA. Io: "SI figuri! Certo!". La rossa si fionda dentro, è più leggera e più grintosa: ha vinto! In questo momento comincia il mio dramma. Sul treno c'è sempre più gente, i due gruppi di donne al centro del vagone non sono i soli. E ogni gruppo tende a portare avanti le proprie cose, i propri discorsi. E pressano. Piano piano le socie della rossa si avvicinano a lei, finchè non mi ritrovo il busto di una in fronte, praticamente davanti al mio sedile, tanto che non vedo più i miei dirimpettai. E così anche l'altra, che rimane un pochino fuori. A destra ho la valchiria, che è ancora incaz*ata nera e parla del suo mal di schiena, pressata com'è a sua volta dalle sue amiche, che a loro volta sono pressate da altra gente nel vagone. Moschino, DIor, Calvin Klein, Chanel, le mie narici ormai captano di tutto. Tutto mischiato, peggio dell' onion frenzy che si sente la mattina nel gruppo dei pendolari. Ogni mio senso è disorientato nella pressione del vagone. L'udito, che lotta nel captare la musica dal lettore mp3 disturbata dal chiacchiericcio delle sciure, il tatto, annullato nel sudore di due mani che si sono fuse nella borsa, la vista, ristretta ad un campo visivo di 30 gradi, l'odorato, stordito dai sapori, e il gusto, ormai annullato nella fame delle 13.30. Che inferno! Passano 5 minuti, ma sembrano mezz'ora. Una, due fermate, finalmente il vagone riesce a compensare e si libera un po'. RIvedo i miei dirimpettai, ancora più innamorati ma conciati come i protagonisti della Guerra dei Mondi, altri studenti come me che finalmente ritrovano il sorriso ed il vecchio Eritreo: granitico, rigido, imperiale. Fresco come il ghiaccio delle Alpi. E la sua borsa è ancora lì, su quel sedile rimasto vuoto. "Voi giovani d'oggi siete dei maleducati!". Guardo la borsa, e mi sembra che sorrida. "Te l'avevo detto di lasciarmi lì". Non ho mai sognato un luogo comune come oggi su quel treno.

giovedì, novembre 10, 2005

Il mio silenzio

Per me il silenzio è assenza di rumore. Parlare restando muti è comunicare qualcosa senza emettere vibrazioni sonore. E' comunicazione discreta, che non obbliga ad un feedback immediato. Su tutto, non obbliga ad un feedback. Parlare restando muti è uno sguardo, una stretta di mano, un bacio, fare l'amore. MA è anche scrivere una lettera, una e-mail, un messaggio. Scrivere un blog. Immagina il blog come una palla di pastura che scende lentamente verso il fondo, particella per particella si scioglie diffondendosi in acqua. E' questo il mio blog: un messaggio rivolto a non so chi - mi chiedo se sia rivolto a me stesso, ma ci arriverò - ma a cui tutti possono accedere. Non è un diario - non lo ho, ma ho qualcosa di simile - perchè nel diario scrivo le cose veramente importanti e tengo le persone a me più care.
Il blog non è uno psicanalista alla Morelli. Non voglio imparare a comunicare il silenzio, ma solo comunicare diversamente, nel modo che ritengo più "mio" nel panorama dei new-media odierni.
E non osanno il silenzio. Il silenzio è anche il suono dell'imbarazzo. Di chi non sa cosa dire. Il silenzio può essere la cosa più artificiale che esiste tra due persone. Il silenzio può essere frainteso. Il silenzio non è sempre diretta emanazione di un'emozione, di un concetto. E' anche strategia, la cosa più filtrata tra le cose più filtrate.
La vita online è diversa da quella offline come una pagina scritta è diversa da un caffè al bar. Forse vis a vis prima o poi dovrò imparare ad usare (!) il silenzio. Sono o non sono un ingenuo studente di comunicazione?

mercoledì, novembre 09, 2005

Perchè un blog?

Già..perchè? Sicuramente perchè fa figo averne uno; ce l'hanno (o almeno credono di averlo) tutti i più grandi giornalisti e pubblicisti del mondo, i politici, i prelati (omelie by podcast rule!), i manager. E la gente come me, come te che stai leggendo, gente normale, la cui vita non è il BluTornado e tantomeno una corazzata Potemkin. Ho aperto il blog: quindi SONO FIGO. Poi sicuramente ha influito la voglia di dire qualcosa. Ciò che mi pare, che mi passa per la testa e il cuore in ogni momento della mia giornata. MA non hai già il forum?! Sì, ma è un'altra cosa... La mia opinione ambisce ad essere tiranna con conseguente chiusura mentale: è un mio grande difetto. Ma ho aperto il blog per questo: posso ESSERE TIRANNO. Infine, hanno fatto il loro anche i nuovi scenari di vita che mi vedono coinvolto. Sento di avere il bisogno di parlare, parlare, parlare...ci sono gli amici, ma ogni tanto senti il bisogno di non avere feedback. Diventerei pesante. Apro il blog per ESSERE NUOVO. Ma forse il motivo per cui ho aperto questo spazio è un altro: non so usare il silenzio. ORa posso parlare senza obbligare nessuno ad ascoltarmi. Posso essere discreto, un fantasma. Ho aperto il blog per PARLARE RESTANDO MUTO. Chissà se ce la farò mai.

Incipit

Tanto per cominciare, oggi è una giornata di m*rda.