L'angolo di Bertrando

Siamo solo bugie che attendono di essere svelate.

domenica, marzo 26, 2006

Rudy V.

sabato, marzo 25, 2006

Ano-nimo

Tra "ano" e "anonimo" c'è un "nimo" di differenza --> latinizziamo = nessuna.
Hai vinto un peluche! Bravo!

venerdì, marzo 24, 2006

Tra “turiste” e “triste” c’è una U di differenza.

martedì, marzo 21, 2006

L'assassino

So a cosa stai pensando. Che sono morto. Che non scrivo più. Che non ho più niente da dire. So che pensi che la mia catarsi sia agli sgoccioli, che le tranquillità ritrovata abbia messo sottovuoto la volontà di narrare. So che ti senti tradito, che pensi che io abbia avuto bisogno della tua attenzione solo quando ero sulle montagne russe, come se tu fossi la mia cintura di sicurezza che mi protegge dai “su e giù” della vita.
No, non è così, caro amico. E se lo è, lo è solo in parte. E’ vero, si ha più da dire quando si sta male, è indubbio. E’ romanticamente indubbio. Ma è bello anche scrivere della felicità – e in questo periodo ve n’è, eccome se ve n’è -, del primo approccio con esperienze mai provate – e ve ne sono, eccome se ve ne sono - , dei piccoligrandi cambiamenti della vita e della personalità che ti rendono una copia diversa ogni mattina quando ti guardi allo specchio. Ma non ce la faccio, non per colpa mia.
Che tu ci creda o meno, l’assassino di ogni mio entusiasmo letterario è un libro. Un libro che, maledettoilgiornochetihotrovatosugliscaffalidellabiblioteca, ha demolito ogni mia velleità letteraria – sempre che ne abbia mai avute –, ha inibito ogni mio desiderio di mettere nero su bianco le esperienze e le sensazioni, ha fatto sentire inutile, perché non sufficiente, tutto quello e scriverò – se – in futuro. Mi ha fatto sentire piccolo piccolo, più micro di un infinitesimo puntino nel mappamondo di chi scrive, anche per diletto. La formica che schiacci quando cammini senza che tu lo voglia, perché è talmente piccola che nemmeno te ne accorgi.
Mai ho letto un libro che mi desse queste sensazioni. No i classici, no gli europei, no gli statunitensi, eppure di capolavori ne sono stati scritti. Mi è capitato di sorridere davanti a periodi armonici e quasi musicali, a descrizioni ambientali e del sentimento che mi proiettavano dentrofuori al testo, all’utilizzo di vocaboli arditi e rari, di quelli da usare nelle cene con gli amici per tirartela e poi essere preso in giro per la tua spocchia. Mai, però, ho preso un cartone in faccia come quello che il buon Piperno mi ha assestato in zona occipitale: steso, ko, Sonny Liston dopo la sassata di Mohammed Ali, tin tin tin.
Mi son trovato davanti ad una varietà di vocaboli impressionante, a costruzioni di periodi dai ritmi variegati, bizzosi, apparentemente irregolari ma profondamente legati ai moti d’animo dei protagonisti. E ho trovato vivide descrizioni del declino, della gioia, della vergogna. Solo nei libri di filosofia mi era capitato di rileggere trequattrocinque volte un paragrafo: ma in quel momento lo facevo perché non capivo niente, qui perché stupefatto davanti a tanta bravura, perché invidioso, perché sognante, perché bambino che cerca di imparare a memoria per poi riprodurre quello che ha imparato.
Ma non ce la farò mai, mi devo rassegnare alla mia medierà. Non avrò mai quelle capacità, non avrò mai quel talento. Sì, il talento è ciò che mi manca. Ho la voglia, le cose da dire, gli spazi per farlo: mi manca la capacità di renderle uniche.
L’unica cosa che cerco, ora, è quella voglia di scrivere per me e solo per me stesso, che prima di questa lettura mi faceva trascorrere ore intere a pensare alle mie sensazioni, a smontarle nelle loro molecole per trasferirle sul foglio bianco. Alla luce di questa lettura, tutto quello che ho scritto ha perso valore. Se non altro, qualità stilistica. Rimane quello che c’è dietro che, molto probabilmente, mai riuscirò a descrivere, nemmeno col più perfetto dei periodi.
E’ proprio vero, bisogna stare male per scrivere. E “Con le peggiori intenzioni” è stata una lettera d’addio della mia amata. Bisogna farsi forza e ricominciare. Da se stessi, e dalle persone più care. Da te che mi leggi e che apprezzi. Da te che hai sentito la mia mancanza.

sabato, marzo 11, 2006

Trequattrozerotrequattrodueunoottosettenove. Paolo.

Sono tre giorni che mi perseguiti. Sì, tre giorni che ci ritroviamo alla stessa ora, nello stesso punto: io svogliatamente poggiato al vetro del treno, tu davanti a me, insieme alla tua migliore amica. Cosa vuoi da me? Mi guardi quando io non ti guardo. O sono una visione troppo riprovevole per i tuoi vergini occhi azzurri che sfumano nel grigio, o forse sei davvero imbarazzata per gli stessi sguardi che ti rivolgo io, quando tu non mi guardi. Ti vedo, riflessa nel vetro mentre osservi con curiosità le spille che pizzicano la mia borsa. Lì c’è una parte di me stesso: le mie passioni, i miei idoli, le mie esagerazioni. Chissà che tu non stia cercando di capire qualcosa di me, di quell’essere ingessato in un cappotto da gerarca russo che legge un libro di cui non riesci a scorgere il titolo; e che cerca di essere indifferente a te, che vorresti che lo fosse per trarti d’impiccio, ma che in realtà ti senti lusingata dalle sue attenzioni. Ho la pallida impressione che tu abbia capito poco, che ti sia fatta l’idea sbagliata che quelle spille mi costruiscono addosso. Non sei bellissima, chiara talea tra Avril Lavigne e Giovanna Mezzogiorno, eppure qualcosa di te mi ha colpito. Forse la timidezza che ostenti per coprire un’innata curiosità, i tuoi occhi dalle sfumature così particolari, o quei piccoli difetti del viso che ti rendono più bambina di quello che sei. Vorrei carpire le parole che stai sussurrando alla tua amica, vorrei poter carpire un tuo apprezzamento nei miei confronti, vorrei non togliermi le cuffie per sentire il tuo disagio per i miei occhi che ti scrutano. Mi piaci. E ho la sensazione che io ti incuriosisca. A differenza delle altre, tu non mi fai paura; ma inneschi piccole esplosioni di orgoglio nel mio ego perforato dai precedenti angeli che lo hanno dominato. Ora cosa faccio? Anche ieri è andata così, nello stesso identico modo. Anche ieri quel semplicissimo gioco che fa parlare due persone senza aprire bocca. Non so cosa tu voglia da me: se tu fossi la solita superficiale controfigura di quello che vedo, la classica vipera che fugge dopo avere morso? Io non ti temo. Io ti voglio. Anche oggi, più di ieri, più di quanto immaginassi. Io temo di volerti, ecco cosa mi frena. Ancora, mi stai osservando; credi che non ti veda? E’ inutile che provi a distrarmi fingendo interesse per il discorso della tua amica. Il paesaggio scorre dietro al finestrino. Una, due, tre stazioni, ancora poco e ti perderò. Solo per oggi. Solo per oggi? E se non ti dovessi vedere mai più? Se fossi un’imbeccata del destino, il biglietto per il treno che porta al paradiso? Come fai ad essere così importante…nemmeno ti conosco. Non so che nome hai, che passioni ti muovono le corde, dove vai ogni giorno con quella tua amica. Potresti avere anche una voce odiosa. Io non l’ho ancora sentita, mi nutro di te attraverso le melodie che abitano il mio lettore mp3. Mi piace pensare che sia sottile come i tuoi lineamenti. Hai la capacità di condensare il tempo, di farmi vivere il futuro che mai condivideremo e il presente che stiamo vivendo, nello stesso istante. Guardami, ti prego, continua a farlo. Anche ora che saluti, baciandola, la tua amica. E che ti alzi per recarti verso le porte che chiuderanno l’incontro dei nostri lampi. Vedo le tue spalle, ora. Fremo, non resisto, non puoi andare via così. Non farmi questo. No. Anche tu. No! Un piccolo salto ti porta giù dal treno, e i tuoi capelli biondo cenerino vibrano nell’aria. Vedo ogni istante al rallentatore. “Scusami…questo è per te”. E ti volti, sorpresa. Sorpresa perché speravi che fossi io? Sorpresa perché speravi che non fossi io? Non mi interessa, mi bastano la tua genuinità e il tuo sorriso a rendere il gesto meno imbarazzante. “…so bene che non è un bel modo…ma è l’unico che avevo…per conoscerti…”. Ora mi stai guardando – perché puoi, la situazione ha sdoganato la tua curiosità, ha scombinato il nostro gioco e ti ha spogliato di ogni vestimento di difesa – e vorrei che lo facessi per sempre. Ma le porte mi portano via da te, si chiudono. Ci evitano l’imbarazzo di una situazione forzata, pur spezzando il mio piccolo scorcio di paradiso. Mentre il treno mi allontana, pochi secondi mi consentono di scorgerti mentre leggi ciò che ti ho dato. Trequattrozerotrequattrodueunoottosettenove. Paolo.

mercoledì, marzo 08, 2006

la Festa della Donna

Mi ero ripromesso di non dire niente. Ma l’offerta di mimose dell’ennesimo kotokoto ha svegliato la misoginia che, almeno quest’anno, avrei preferito sopire.
Ma che festa è la festa della donna? Non hanno mica voluto la parità? Non dovrebbero essere uguali a noi? Hanno bisogno anche loro di un –pride per farsi vedere, notare, ricordare? Non bastano i conti salati dall’avvocato? Cosa dobbiamo festeggiare? La loro dedizione alla famiglia? Come se l’uomo fosse un bruto. La loro sensibilità? Come se noi fossimo tutti scaricatori di porto. Che cosa? Più guardo una donna, più vedo che le uniche cose che ci differenziano da loro sono le tette e il buco - inorridisci pure, sto sputando purea, mi va di parlare così perché non ne posso più. Festeggiamo le tette e il buco allora! Ecco, festeggiateli!
Stasera i locali pulluleranno di tavolate di 1) donne che escono una volta l’anno stanche dei mariti che ormai hanno erezioni di 30°; 2) gruppi di amiche, con le classiche bellone impegnate che tirano lumate a tavoli di illusi maschi per a) attirare la loro attenzione e far cuccare le amiche cesso, b) fare il pieno di autostima, c) godere per avere sottomesso nuovamente il Maschio Brutalis; 3) gruppi di ragazzi assatanati, per lo più di genere Homo Medius Arrapatus, davanti ai loro 4 litri di birra, sguardi da leone al sole che non mangia da 10 giorni, cellulari pronti per il toothing con qualsiasi essere vivente che abbia le sembianze di una ragazza, portafoglio colmo degli ultimi guadagni, si sa mai che le si debba pagare qualche drink, la sera al motel, oppure andare da quelle che la festa non la fanno mai, ma TE LA fanno sempre, basta che paghi.
E, poi, nei locali migliori, uomini-immagine, spogliarelli di uomini vestiti da spadaccino, pompiere, poliziotto, dottore. Ci sarà anche Berlusconi, che usarà sue controfigure per la campagna elettorale. Sicuramente una donna mi direbbe che queste cose, per noi esseri sensibili come un sasso, ci sono tutti i giorni nei locali, basta cercare.
Perché, giusto no?, vogliono essere come noi. Come gli amati-odiati maschi. Peccato che scelgano, per esserlo, le manifestazioni più triviali del maschio. E lo scimmiottano, coprendosi di ridicolo.
E per sentirsi speciali hanno bisogno di una festa.
Ma dove siamo finiti?
W la donna, ma al suo posto.

domenica, marzo 05, 2006

Galatea

Quella mattina sarebbe stata come tutte le altre, se al porto non avesse attraccato quella barca di pescatori. Se alla solita routine non si fosse aggiunto quel fuori programma. Se quella tartaruga di mare non fosse rimasta impigliata alla rete.
Due pescatori di mezza età, la pelle indurita e scurita da ore e ore di sole e salsedine, si presentarono al Centro di Recupero Animali Marini con un mastello blu e chiesero di poter consegnare un animale rimasto impigliato alle reti. I veri uomini di mare, per quanto traggano sostentamento dalla pesca, hanno profondo rispetto per le creature del mondo blu e, se possono, fanno di tutto per ricucire lo strappo alla Natura causato dalla loro attività.
Il caso volle che quella mattina fosse di turno Matteo, un giovane ricercatore fresco di laurea in biologia marina e legato al mare da un cordone ombelicale inscindibile.
“L’abbiamo trovata questa mattina, impigliata alla nostra rete”, disse con evidente imbarazzo uno dei pescatori, preoccupato di uno sguardo severo del giovane ricercatore.
Ma Matteo no, non gli diede un’ipocrita ammonizione, nemmeno con il velato sguardo: “Avete fatto bene a portarla qui, faremo di tutto per salvarla, per il vostro gesto lei vi sarà sempre grata”.
Posato il mastello nell’ambulatorio nel quale l’animale sarebbe stato visitato i pescatori, ancora sbigottiti per la risposta di quel giovane, tornarono alla propria barca senza parlare.
La situazione era più grave del previsto. Quel povero animale era rimasto impigliato nella rete per almeno quattro giorni, ed erano evidenti i segni degli sforzi fatti per liberarsi da quelle sconosciute catene: una zampa posteriore presentava una profonda lacerazione, una anteriore era praticamente immobile e sanguinava dalla base per un profondo taglio, il carapace era molto fragile in alcuni punti e l’animale faceva fatica a muoversi. Quasi settanta chili di animale, poggiato inerte sul fondo di quel secchio blu. Ciò che preoccupava Matteo erano soprattutto gli occhi. Li teneva socchiusi, la pupilla fissa a guardare nel vuoto, come se stesse risparmiando anche la più piccola energia per sopravvivere. Come se quella tartaruga si fosse resa conto di essere arrivata al capolinea, rassegnata a morire, cercando di provare il minor dolore possibile. Il giovane ricercatore aveva gestito altri casi di lesioni gravi, spesse volte dovendo sopportare anche la scomparsa di una vita, ma questo era davvero particolare, e non capiva il motivo: doveva salvare quella tartaruga!
Il sabato mattina il personale è, di solito, ridotto al minimo. Ci sono i volontari, i ricercatori, ma l’unico medico responsabile in grado di salvare quell’animale era lui, Matteo. Chiamò due giovani volontari, che lo aiutarono a porre la tartaruga sul tavolo operatorio. Anestetizzò l’animale, guardandolo in quegli occhi spenti, quasi supplichevoli di un intervento liberatorio dal dolore incommensurabile che li stava chiudendo piano piano. Disinfettò e ricucì le ferite con perizia, in silenzio, concentrato come mai gli era capitato fino a quel momento. Prima la zampa posteriore, poi quella anteriore, senza sapere se quell’animale fosse ancora vivo, con lui. Qualcosa dentro gli diceva che quell’animale aveva voglia di vivere; e che non si sarebbe mai perdonato di non aver fatto tutto il possibile per salvarlo. L’intervento durò quasi quattro ore: quando l’animale fu di nuovo sveglio, fu sollevato ancora dagli inservienti e portato nella vasca di recupero per le tartarughe, un cilindro di tre metri di diametro, e profondo due, all’interno del quale sarebbe rimasto per il tempo necessario alla guarigione.
Dopo l’operazione, Matteo rimase a guardare quella tartaruga per ore. Cos’ha di così speciale? Perché provo questa preoccupazione? Perché la sento così “mia”?
Galatea. Sì, decise di chiamare così quell’animale immobile, sofferente, evidentemente perso e pericolosamente in bilico tra la vita e la morte.
Passò qualche giorno, ma Galatea stentava a riprendersi. Poggiata sul fondo di quella vasca, non mangiava, non si muoveva, limitava i suoi gesti vitali a lievi battiti delle palpebre. Lo sguardo era sempre lo stesso, ingrigito ulteriormente da quelle giornate di pioggia. MA ERA VIVA. Sì, l’aveva salvata.
La preoccupazione per la sua vita lasciò subito il posto a quella per il recupero di tutte le funzioni fisiche e biologiche, fondamentali per un animale selvatico. Matteo passava ore ed ore ad occuparsi di Galatea. Si immergeva nella vasca e le muoveva le zampe ferite, simulando il gesto della nuotata. Cercava di farla mangiare, la accarezzava come si fa con un cagnolino per farla sentire coccolata. Lei però sembrava ignorarlo, lo sguardo fisso nel vuoto e le palpebre socchiuse. E così per diversi giorni, finchè non avvenne un piccolo miracolo. Una mattina Matteo si immerse nella vasca, con un grosso pesce in mano, per tentare l’ennesima volta di imboccarla. Stava cominciando anche lui a perdere le speranza: si sarebbe dovuto rassegnare a vedere quell’animale sopirsi per sempre, senza poter fare nulla per salvarlo. Ma Galatea lo stupì. Aprì leggermente la bocca, come mai aveva fatto in più di due settimane. Gli occhi ora guardavano Matteo, come a supplicarlo di aiutarla, di darle quel pesce perché da sola non ce l’avrebbe fatta. La tartaruga mangiò un po’ di quel pesce, e poi tornò nel suo stato di apatia. Andava bene così: ogni volontario, ogni altro medico presente al Centro sapeva ormai del miracolo, perché Matteo non parlava d’altro. E gli altri non sembravano stupiti, gli dicevano: “è una tartaruga come le altre centinaia che giungono qui, ogni anno…”. Ma lui era convinto che avesse qualcosa di speciale. Non sapeva cosa. Sapeva però che la salvezza di quella tartaruga contava per lui più di quella di ogni altra.
Ed in effetti fu così per parecchio tempo. Addirittura mesi. Ogni giorno Galatea progrediva nel recupero: le ferite erano ormai rimarginate, aveva recuperato ampia mobilità di tutti e quattro gli arti, mangiava senza doverla più imboccare. Ma soprattutto aveva aperto le palpebre, e lo sguardo non era più velato. Quell’animale si era salvato definitivamente: Matteo lo aveva salvato. Il giovane ricercatore dedicava molto tempo del suo lavoro e tutto il suo tempo libero a Galatea. Ne seguiva i progressi, la aiutava a recuperare la mobilità, stimolandola in “giochi”, proprio come si fa con un bambino. La carezzava e lei sembrava non desiderasse altro, non era aggressiva come le altre. Passava, a volte, intere ore semplicemente guardandola dall’alto, la testa svuotata di ogni pensiero ma il cuore che sorrideva. Matteo e Galatea erano quasi riusciti nel miracolo di crearsi un linguaggio: la tartaruga ormai sapeva come fare per chiamare Matteo, e Matteo accorreva e capiva subito di cosa avesse bisogno. Cibo, un po’ di bollicine; era arrivato addirittura a pensare che l’animale potesse chiamarlo per chiedergli semplicemente un po’ di compagnia.
Tutti ormai parlavano di quell’animale, di quel ragazzo che l’aveva salvato e di quei suoi comportamenti strambi, esagerati. Tanto che persino il Direttore del Centro un giorno lo prese da parte e gli fece i complimenti per l’impresa in cui era riuscito, ma lo ammonì con una frase che di lì a poco avrebbe tartassato la sua mente per mesi: “l’altruismo spesso significa pensare a se stessi”. Matteo non capì quella frase, fino al punto di pensare che avrebbe preferito una minaccia di licenziamento. Ma poi capì. Dovette capire.
Un sera, qualche giorno più tardi, fu svegliato da un volontario: “Teo, giungono degli strani rumori dalla vasca di Galatea, vieni a vedere”. Matteo di trovò davanti un animale agitato, che si muoveva avanti ed indietro, su e giù, che picchiava col becco la parete della vasca, proprio come faceva quando necessitava di qualcosa. Però non l’aveva mai fatto di notte, mai con quella violenza. Si immerse e le andò vicino. La carezzò dolcemente e Galatea sembrò tranquillizzarsi. Lo guardava per dirgli: “grazie per essere qui con me”. E successe la stessa cosa anche il giorno dopo, e quello dopo ancora. Finchè, una sera, la situazione precipitò. Come al solito, Matteo fu svegliato dal rumore di Galatea che lo chiamava. Corse, si immerse e cerco di calmarla. Ma si rese conto subito che qualcosa non andava, perché Galatea si dimenava, picchiava la parete della vasca, sfuggiva al suo abbraccio. Quella sera lo morse, aprendogli un’ampia ferita alla base del pollice. Uscito dalla vasca, si medicò, senza dire nulla a nessuno. “Mi son tagliato facendomi da mangiare”, sarebbe stata la versione ufficiale.
Galatea, nei giorni, era sempre più agitata e aggressiva, tanto che nemmeno i volontari volevano più avvicinarsi a quella vasca. Solo Matteo poteva avvicinarsi, ma non come prima. Quando si affacciava alla sommità di quel cilindro, la tartaruga si bloccava, immobile sul fondo come quando era in fin di vita. Ma l’occhio non era perso. Era vivo, pungente, colpiva le pupille di Matteo con severità. Non poteva più immergersi, né darle da mangiare. Non sapeva più cosa fare per tranquillizzarla, per riportarla alla pace di quei mesi passati insieme. E fu così per parecchi giorni, tra la preoccupazione di tutti i componenti del Centro, che vedevano la situazione peggiorare e il loro collega sempre più chiuso nei suoi silenzi.
Una sera Matteo decise di andare alla caletta. Seduto su una roccia guardava il meraviglioso ciclo di morte del giorno, i colori azzurri e rossi che si compenetrano, che sembrano abbracciarsi per poi svanire l’uno nell’altro e diventare un solo colore, il blu della notte. L’estate ormai era agli sgoccioli, e le prime fresche brezze lambivano la spiaggia. Matteo pensava, pensava e pensava; a quel peschereccio che gli portò Galatea, ai suoi occhi spenti e alle sue profonde ferite, ai progressi costanti, giorno dopo giorno, a tutto ciò che quell’animale era diventato per lui. E pensava questo guardandosi la mano, quella ferita profonda, risultato del suo stesso amore. L’altruismo spesso significa pensare a se stessi. E si domandava perché. L’altruismo spesso significa pensare a se stessi. Si chiedeva cosa stesse sbagliando, cosa dovesse fare per far tornare tutto come prima. Per quanto cicatrizzata, quella ferita pulsava e faceva ancora male mentre la guardava. Si sentiva come Galatea: privo di forze, disperato nella sua inutilità. Si sentiva piccolo, privo di risorse. Sapeva che qualsiasi cosa avesse fatto, non sarebbe bastata. Che il suo amore non era sufficiente, perché Galatea non era felice. Perché Galatea non era libera, prigioniera del suo egoismo. Del suo sentimento.
“Tu sai cosa devi fare”.
Una voce familiare. Di Simone, il suo migliore amico. Era alle sue spalle, chissà da quanto tempo.
Matteo si voltò e gli rivolse uno sguardo vuoto e confuso. “Lo so, è il mio cuore che non vuole farlo”.
E rimasero così, uno di fronte all’altro, uno seduto ed uno in piedi, senza parlare.

La mattina seguente Matteo era di nuovo in quella caletta. Insieme a Franco, Sabrina, Lucia, Angelo, Alessandro, Michela, Silvia. Anche il Direttore del Centro era con loro.
E c’era anche Galatea, nello stesso mastello blu nel quale era stata portata mesi prima. Matteo volle solo Simone al suo fianco, che lo aiutasse a trasportarla fino alla riva. Galatea fu posta su quella sabbia che fino al giorno prima urtava per il suo calore, ma che in quel momento era fredda, come se percepisse anche lei la delicatezza del momento. Matteo la aiutò, la spinse piano piano, dolcemente, la guidò verso le piccole onde. La bagnò e si immerse in acqua, tirandola a sé, cingendole le mani come un uomo che invita una bellissima donna ad un ballo. Galatea non era agitata, ma si lasciava guidare. Anche lei sembrava capisse il momento, sembrava sentisse il cuore di Matteo battere più forte del solito. In pochi secondi fu libera, lentamente riprese quei movimenti che Matteo le aveva insegnato a fare nuovamente. Lui la seguì per un po’, poi rallentò la nuotata. Galatea se ne accorse, e si arrestò. Si voltò e guardò il suo Matteo, che rivide quegli occhi felici, che gli avevano aperto il cuore.
Poi lei si allontanò, ondeggiando nella sua nuotata ancora insicura. Matteo la vide sparire nel blu, in quel mondo che credeva di poter sostituire. Quel blu di cui sono fatte le lacrime, che nessuno vide mai.



Questo racconto è per Simone.