L'angolo di Bertrando

Siamo solo bugie che attendono di essere svelate.

domenica, marzo 05, 2006

Galatea

Quella mattina sarebbe stata come tutte le altre, se al porto non avesse attraccato quella barca di pescatori. Se alla solita routine non si fosse aggiunto quel fuori programma. Se quella tartaruga di mare non fosse rimasta impigliata alla rete.
Due pescatori di mezza età, la pelle indurita e scurita da ore e ore di sole e salsedine, si presentarono al Centro di Recupero Animali Marini con un mastello blu e chiesero di poter consegnare un animale rimasto impigliato alle reti. I veri uomini di mare, per quanto traggano sostentamento dalla pesca, hanno profondo rispetto per le creature del mondo blu e, se possono, fanno di tutto per ricucire lo strappo alla Natura causato dalla loro attività.
Il caso volle che quella mattina fosse di turno Matteo, un giovane ricercatore fresco di laurea in biologia marina e legato al mare da un cordone ombelicale inscindibile.
“L’abbiamo trovata questa mattina, impigliata alla nostra rete”, disse con evidente imbarazzo uno dei pescatori, preoccupato di uno sguardo severo del giovane ricercatore.
Ma Matteo no, non gli diede un’ipocrita ammonizione, nemmeno con il velato sguardo: “Avete fatto bene a portarla qui, faremo di tutto per salvarla, per il vostro gesto lei vi sarà sempre grata”.
Posato il mastello nell’ambulatorio nel quale l’animale sarebbe stato visitato i pescatori, ancora sbigottiti per la risposta di quel giovane, tornarono alla propria barca senza parlare.
La situazione era più grave del previsto. Quel povero animale era rimasto impigliato nella rete per almeno quattro giorni, ed erano evidenti i segni degli sforzi fatti per liberarsi da quelle sconosciute catene: una zampa posteriore presentava una profonda lacerazione, una anteriore era praticamente immobile e sanguinava dalla base per un profondo taglio, il carapace era molto fragile in alcuni punti e l’animale faceva fatica a muoversi. Quasi settanta chili di animale, poggiato inerte sul fondo di quel secchio blu. Ciò che preoccupava Matteo erano soprattutto gli occhi. Li teneva socchiusi, la pupilla fissa a guardare nel vuoto, come se stesse risparmiando anche la più piccola energia per sopravvivere. Come se quella tartaruga si fosse resa conto di essere arrivata al capolinea, rassegnata a morire, cercando di provare il minor dolore possibile. Il giovane ricercatore aveva gestito altri casi di lesioni gravi, spesse volte dovendo sopportare anche la scomparsa di una vita, ma questo era davvero particolare, e non capiva il motivo: doveva salvare quella tartaruga!
Il sabato mattina il personale è, di solito, ridotto al minimo. Ci sono i volontari, i ricercatori, ma l’unico medico responsabile in grado di salvare quell’animale era lui, Matteo. Chiamò due giovani volontari, che lo aiutarono a porre la tartaruga sul tavolo operatorio. Anestetizzò l’animale, guardandolo in quegli occhi spenti, quasi supplichevoli di un intervento liberatorio dal dolore incommensurabile che li stava chiudendo piano piano. Disinfettò e ricucì le ferite con perizia, in silenzio, concentrato come mai gli era capitato fino a quel momento. Prima la zampa posteriore, poi quella anteriore, senza sapere se quell’animale fosse ancora vivo, con lui. Qualcosa dentro gli diceva che quell’animale aveva voglia di vivere; e che non si sarebbe mai perdonato di non aver fatto tutto il possibile per salvarlo. L’intervento durò quasi quattro ore: quando l’animale fu di nuovo sveglio, fu sollevato ancora dagli inservienti e portato nella vasca di recupero per le tartarughe, un cilindro di tre metri di diametro, e profondo due, all’interno del quale sarebbe rimasto per il tempo necessario alla guarigione.
Dopo l’operazione, Matteo rimase a guardare quella tartaruga per ore. Cos’ha di così speciale? Perché provo questa preoccupazione? Perché la sento così “mia”?
Galatea. Sì, decise di chiamare così quell’animale immobile, sofferente, evidentemente perso e pericolosamente in bilico tra la vita e la morte.
Passò qualche giorno, ma Galatea stentava a riprendersi. Poggiata sul fondo di quella vasca, non mangiava, non si muoveva, limitava i suoi gesti vitali a lievi battiti delle palpebre. Lo sguardo era sempre lo stesso, ingrigito ulteriormente da quelle giornate di pioggia. MA ERA VIVA. Sì, l’aveva salvata.
La preoccupazione per la sua vita lasciò subito il posto a quella per il recupero di tutte le funzioni fisiche e biologiche, fondamentali per un animale selvatico. Matteo passava ore ed ore ad occuparsi di Galatea. Si immergeva nella vasca e le muoveva le zampe ferite, simulando il gesto della nuotata. Cercava di farla mangiare, la accarezzava come si fa con un cagnolino per farla sentire coccolata. Lei però sembrava ignorarlo, lo sguardo fisso nel vuoto e le palpebre socchiuse. E così per diversi giorni, finchè non avvenne un piccolo miracolo. Una mattina Matteo si immerse nella vasca, con un grosso pesce in mano, per tentare l’ennesima volta di imboccarla. Stava cominciando anche lui a perdere le speranza: si sarebbe dovuto rassegnare a vedere quell’animale sopirsi per sempre, senza poter fare nulla per salvarlo. Ma Galatea lo stupì. Aprì leggermente la bocca, come mai aveva fatto in più di due settimane. Gli occhi ora guardavano Matteo, come a supplicarlo di aiutarla, di darle quel pesce perché da sola non ce l’avrebbe fatta. La tartaruga mangiò un po’ di quel pesce, e poi tornò nel suo stato di apatia. Andava bene così: ogni volontario, ogni altro medico presente al Centro sapeva ormai del miracolo, perché Matteo non parlava d’altro. E gli altri non sembravano stupiti, gli dicevano: “è una tartaruga come le altre centinaia che giungono qui, ogni anno…”. Ma lui era convinto che avesse qualcosa di speciale. Non sapeva cosa. Sapeva però che la salvezza di quella tartaruga contava per lui più di quella di ogni altra.
Ed in effetti fu così per parecchio tempo. Addirittura mesi. Ogni giorno Galatea progrediva nel recupero: le ferite erano ormai rimarginate, aveva recuperato ampia mobilità di tutti e quattro gli arti, mangiava senza doverla più imboccare. Ma soprattutto aveva aperto le palpebre, e lo sguardo non era più velato. Quell’animale si era salvato definitivamente: Matteo lo aveva salvato. Il giovane ricercatore dedicava molto tempo del suo lavoro e tutto il suo tempo libero a Galatea. Ne seguiva i progressi, la aiutava a recuperare la mobilità, stimolandola in “giochi”, proprio come si fa con un bambino. La carezzava e lei sembrava non desiderasse altro, non era aggressiva come le altre. Passava, a volte, intere ore semplicemente guardandola dall’alto, la testa svuotata di ogni pensiero ma il cuore che sorrideva. Matteo e Galatea erano quasi riusciti nel miracolo di crearsi un linguaggio: la tartaruga ormai sapeva come fare per chiamare Matteo, e Matteo accorreva e capiva subito di cosa avesse bisogno. Cibo, un po’ di bollicine; era arrivato addirittura a pensare che l’animale potesse chiamarlo per chiedergli semplicemente un po’ di compagnia.
Tutti ormai parlavano di quell’animale, di quel ragazzo che l’aveva salvato e di quei suoi comportamenti strambi, esagerati. Tanto che persino il Direttore del Centro un giorno lo prese da parte e gli fece i complimenti per l’impresa in cui era riuscito, ma lo ammonì con una frase che di lì a poco avrebbe tartassato la sua mente per mesi: “l’altruismo spesso significa pensare a se stessi”. Matteo non capì quella frase, fino al punto di pensare che avrebbe preferito una minaccia di licenziamento. Ma poi capì. Dovette capire.
Un sera, qualche giorno più tardi, fu svegliato da un volontario: “Teo, giungono degli strani rumori dalla vasca di Galatea, vieni a vedere”. Matteo di trovò davanti un animale agitato, che si muoveva avanti ed indietro, su e giù, che picchiava col becco la parete della vasca, proprio come faceva quando necessitava di qualcosa. Però non l’aveva mai fatto di notte, mai con quella violenza. Si immerse e le andò vicino. La carezzò dolcemente e Galatea sembrò tranquillizzarsi. Lo guardava per dirgli: “grazie per essere qui con me”. E successe la stessa cosa anche il giorno dopo, e quello dopo ancora. Finchè, una sera, la situazione precipitò. Come al solito, Matteo fu svegliato dal rumore di Galatea che lo chiamava. Corse, si immerse e cerco di calmarla. Ma si rese conto subito che qualcosa non andava, perché Galatea si dimenava, picchiava la parete della vasca, sfuggiva al suo abbraccio. Quella sera lo morse, aprendogli un’ampia ferita alla base del pollice. Uscito dalla vasca, si medicò, senza dire nulla a nessuno. “Mi son tagliato facendomi da mangiare”, sarebbe stata la versione ufficiale.
Galatea, nei giorni, era sempre più agitata e aggressiva, tanto che nemmeno i volontari volevano più avvicinarsi a quella vasca. Solo Matteo poteva avvicinarsi, ma non come prima. Quando si affacciava alla sommità di quel cilindro, la tartaruga si bloccava, immobile sul fondo come quando era in fin di vita. Ma l’occhio non era perso. Era vivo, pungente, colpiva le pupille di Matteo con severità. Non poteva più immergersi, né darle da mangiare. Non sapeva più cosa fare per tranquillizzarla, per riportarla alla pace di quei mesi passati insieme. E fu così per parecchi giorni, tra la preoccupazione di tutti i componenti del Centro, che vedevano la situazione peggiorare e il loro collega sempre più chiuso nei suoi silenzi.
Una sera Matteo decise di andare alla caletta. Seduto su una roccia guardava il meraviglioso ciclo di morte del giorno, i colori azzurri e rossi che si compenetrano, che sembrano abbracciarsi per poi svanire l’uno nell’altro e diventare un solo colore, il blu della notte. L’estate ormai era agli sgoccioli, e le prime fresche brezze lambivano la spiaggia. Matteo pensava, pensava e pensava; a quel peschereccio che gli portò Galatea, ai suoi occhi spenti e alle sue profonde ferite, ai progressi costanti, giorno dopo giorno, a tutto ciò che quell’animale era diventato per lui. E pensava questo guardandosi la mano, quella ferita profonda, risultato del suo stesso amore. L’altruismo spesso significa pensare a se stessi. E si domandava perché. L’altruismo spesso significa pensare a se stessi. Si chiedeva cosa stesse sbagliando, cosa dovesse fare per far tornare tutto come prima. Per quanto cicatrizzata, quella ferita pulsava e faceva ancora male mentre la guardava. Si sentiva come Galatea: privo di forze, disperato nella sua inutilità. Si sentiva piccolo, privo di risorse. Sapeva che qualsiasi cosa avesse fatto, non sarebbe bastata. Che il suo amore non era sufficiente, perché Galatea non era felice. Perché Galatea non era libera, prigioniera del suo egoismo. Del suo sentimento.
“Tu sai cosa devi fare”.
Una voce familiare. Di Simone, il suo migliore amico. Era alle sue spalle, chissà da quanto tempo.
Matteo si voltò e gli rivolse uno sguardo vuoto e confuso. “Lo so, è il mio cuore che non vuole farlo”.
E rimasero così, uno di fronte all’altro, uno seduto ed uno in piedi, senza parlare.

La mattina seguente Matteo era di nuovo in quella caletta. Insieme a Franco, Sabrina, Lucia, Angelo, Alessandro, Michela, Silvia. Anche il Direttore del Centro era con loro.
E c’era anche Galatea, nello stesso mastello blu nel quale era stata portata mesi prima. Matteo volle solo Simone al suo fianco, che lo aiutasse a trasportarla fino alla riva. Galatea fu posta su quella sabbia che fino al giorno prima urtava per il suo calore, ma che in quel momento era fredda, come se percepisse anche lei la delicatezza del momento. Matteo la aiutò, la spinse piano piano, dolcemente, la guidò verso le piccole onde. La bagnò e si immerse in acqua, tirandola a sé, cingendole le mani come un uomo che invita una bellissima donna ad un ballo. Galatea non era agitata, ma si lasciava guidare. Anche lei sembrava capisse il momento, sembrava sentisse il cuore di Matteo battere più forte del solito. In pochi secondi fu libera, lentamente riprese quei movimenti che Matteo le aveva insegnato a fare nuovamente. Lui la seguì per un po’, poi rallentò la nuotata. Galatea se ne accorse, e si arrestò. Si voltò e guardò il suo Matteo, che rivide quegli occhi felici, che gli avevano aperto il cuore.
Poi lei si allontanò, ondeggiando nella sua nuotata ancora insicura. Matteo la vide sparire nel blu, in quel mondo che credeva di poter sostituire. Quel blu di cui sono fatte le lacrime, che nessuno vide mai.



Questo racconto è per Simone.

1 Comments:

Anonymous Anonimo said...

Gran bel racconto so' pero' mettere al protagonista il mio nome...fa kakare!E poi daje con sto "Galatea"....

3/05/2006 6:27 PM  

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