L'angolo di Bertrando

Siamo solo bugie che attendono di essere svelate.

mercoledì, dicembre 07, 2005

Hey man, you're great!

Riprendo in mano il blog per raccontare un altro episodio vissuto sui magici trasporti pubblici milanesi pochi giorni fa.
Finita la lezione all’università – sono le 14.35 – salto sulla 24 per tornarmene verso il Duomo e poi a casa. Sono in piedi dalle 5 del mattino perché ho dovuto portare all’aeroporto mio padre, e gli occhi sono quindi due mezzelune spente: ho solo voglia di una doccia e del mio bel lettino! Inforco gli auricolari del lettore mp3 e cerco un posto a sedere. Mannaggia, non ve n’è nemmeno uno! “Meglio”, mi dico, “così non mi addormento…anzi, proviamo a leggere la Gazza, magari mi sveglio”. Prendo la rosea, ma dopo tre righe le parole si mescolano in un vortice pazzesco, non riesco a stare concentrato e mi addormento in piedi. Mi do allora al mio passatempo preferito sui mezzi pubblici: scruto la gente intorno a me. “Bene bene, vediamo chi mi fa compagnia…”. Seduto sui sedili non c’è nessuno che attira la mia attenzione, tranne un ragazzo coi capelli molto simili ai miei, trattati con un prodotto – presumibilmente cera – che glieli rende stilosi al massimo e non “cascosi” come i miei. Non fosse stato con la sua tipa a sbaciucchiarsi, gli avrei chiesto qualche consiglio. Di fronte a me la situazione è migliore. La tipica coppia di amiche, quella bella e il cesso, che parlano di altre loro amiche che se la filano con qualcuno di imprecisato. La tipa carina mi piace anche, ha un non so che di spagnoleggiante, latino…strano, per uno che ha sempre pensato di sposarsi una finnica! Le guardo per un po’, ma mi stufo subito perché il “cesso” comincia a guardarmi pensando che io stia guardando lei: mi fingo cieco. Alla mia sinistra, però, si svolge una scena interessante. Una di quelle scene che fan nascere domande solo a me, ma questo mi basta per stare sveglio!
In piedi, proprio su uno degli snodi rotanti delle vetture del tram, ci sono due ragazzi sulla venticinquina, rossi di capelli, carnagione chiarissima, avvolti in due trench scuri che coprono abiti fondamentalmente eleganti. Parlano inglese. “Azz, senti che slang!”. Sono yankee, più yankee di così… Ho la conferma di questo non appena scorgo, pinzato sul petto del più giovane dei due, un cartellino indicante nome, cognome, la parola Jesus Christ, e il nome di una non precisata associazione o confessione cristiana. “Sono due mormoni”, dico tra me, quando so solo che molti sono nello Utah, ma che cosa siano dei veri mormoni non lo so proprio. Mi piace sapere di sapere, anche quando ne so veramente poco. “Chissenefrega, tanto son da solo”. Dai, passami il termine, son mormoni. Ai fini del testo non è importante. Dicevo, ci sono questi due ragazzi che parlano tra loro abbastanza animatamente. Osservandoli bene, capisco subito che uno dei due è più esperto e che nel nostro Paese ci è già stato. Ed è proprio questo che scende dopo due fermate – col suo borsone nero da una delle cui taste appariva una piccola Bibbia tascabile – e lascia da solo il più giovane. Fin qui, niente di eccezionale. Ma…
Decido di concentrarmi sul viso del giovane che, ad un’analisi attenta, è visibilmente preoccupato di qualcosa. Si guarda intorno, inquieto, come se non capisse dove fosse e cosa dovesse fare. Evidentemente il suo “capo” non gli aveva dato le indicazioni necessarie, o lui non aveva capito. Si sente terribilmente spaesato, e solo. “Strano per uno yankee”, mi dico.
Gli occhietti piccoli continuano a cambiare obiettivo. Prima il finestrino, poi la gente intorno, poi ancora il finestrino, dietro, davanti a sé, il finestrino sulla parte opposta. Ogni tanto si abbassa un poco per guardare fuori, come se cercasse di capire dove scendere, e soprattutto dove fosse.
Ad un certo punto prende il coraggio in mano e, dopo aver scrutato ancora una volta la situazione, cerca di parlare con un ragazzo seduto su un seggiolino singolo davanti a lui. Il modo in cui lo cerca fa quasi tenerezza: ditino sulla spalla e “sorry but…”.
Che c’è di strano? Il tipo! Immaginati un Reno Raines (il protagonista di Renegade) più basso e grassoccio, barba incolta e capelli più mossi. Indossa un paio di jeans chiari sdruciti, non per un taglio fashion, ma per l’usura (sembrano anche sporchicci), anfibi ai piedi e, tocco finale, un bomber dell’Avirex verde. Con sé ha un sacchettino, consumato e conciato male pure questo, contente non so che cosa.
Da buon ragazzo che vive di pregiudizi, mi son chiesto: ma perché proprio lui? Insomma, intorno avrai si e no quaranta giovani universitari che più o meno l’inglese sai che lo masticano, perché proprio quell’uomo? Perché uno con una faccia non del tutto rassicurante e che, a prima vista, d’inglese può non sapere nulla?
Si impara dalla vita. Io ho imparato qualcosa, cioè che ancora una volta un mio pregiudizio era sbagliato. Al solito. Cos’è successo? Insomma, il mormone e l’uomo che aveva interpellato cominciano una discussione intensissima, rispettandosi l’un l’altro, in inglese! Da quello che ho capito – avevo gli auricolari e non capivo bene cosa si dicessero – il mormone ha chiesto qualche indicazione sulla strada, poi però la discussione si è evoluta quando l’uomo ha cominciato a fargli domande su Dio, sul suo credo, tanto che il ragazzo ha estratto anche la Bibbia per fargli leggere un piccolo brano. Si capiva chiaramente che l’uomo non era credente, e cercava di capire perché il ragazzo avesse intrapreso quella strada. Uno scambio incredibile, per essere su un tram alle tre del pomeriggio.
La cosa che più mi ha colpito, oltre all’inglese fluente dell’uomo, è stata l’espressione del ragazzo non appena ha capito di trovarsi qualcuno davanti CHE PARLAVA LA STESSA LINGUA. I due occhi lampeggianti lasciano ben presto spazio a due occhi sorridenti, sicuri, curiosi interlocutori di una persona con cui non si condivide nulla, se non la presenza su un qualsiasi tram di Milano. Il volto preoccupato si trasforma e diventa concentrato, a tratti sorridente, sicuramente fiero per la difesa del proprio credo. E ritorna uno yankee quando, prima di scendere dal treno – questo l’ho sentito bene – tende la mano all’uomo con cui aveva condiviso venti minuti di discussione con queste parole: “Hey man, you’re great!”.
Due lezioni oggi. Uno. Non sempre l’abito fa il monaco – mea culpa!. Due. Condividere qualcosa è l’antidoto migliore per ogni paura.
Mi chiedo. E se l’avesse chiesto a me? Io, che tanto mi crogiuolo nella mia “cultura”, nel mio essere curioso, gli avrei chiesto il motivo della sua scelta? Gli avrei chiesto perché? Lo avrei messo a suo agio oppure, dopo un “It’s the last one”, mi sarei rimesso gli auricolari nelle orecchie, più spaventato per la paura di non essere in grado di portare avanti una discussione in lingua straniera, che irritato per il disturbo?Il giovane yankee è stato fortunato, e non si è fermato alle apparenze. Io pure, ma sulle apparenze costruisco le mie mura difensive. Hey man, you’re great!